ROMA – Numero chiuso, una questione aperta. La regola della selezione all’ingresso nelle Università è messa in discussione da ripetute sentenze dei Tribunali amministrativi regionali. I giudici dei Tar di Lazio, Sardegna, Marche, Abruzzo, Molise e Toscana hanno rilevato alcune incongruenze nei test d’ingresso, dando ragione agli studenti esclusi che avevano fatto ricorso. E facendo esultare l’Udu, l’Unione degli Universitari (la Cgil degli studenti): “È stato abbattuto il numero chiuso”.
A questo punto gli studenti che stanno per affrontare gli esami di maturità si chiederanno: “Ma allora da settembre niente più test d’ingresso?” La questione è un po’ più complicata. L’attacco che le sentenze del Tar hanno portato al numero chiuso non è ancora quello definitivo.
I ricorsi degli studenti esclusi sono stati accolti dai giudici per un motivo prevalente – oltre che per ripetute e dolose irregolarità nelle prove d’ingresso: il punteggio minimo. Con le stesse domande e lo stesso punteggio uno studente può essere bocciato a Roma e Bologna e ammesso a Napoli e Sassari. Il test è nazionale, il numero “programmato” di persone ammissibili è nazionale, ma i criteri con cui si entra variano da facoltà a facoltà.
Un colpo mortale al numero chiuso potrebbe venire dalla Corte Costituzionale, che prima dell’estate dichiarerà con sentenza se il numero chiuso così come finora è stato applicato dalle università è conforme al principio del diritto allo studio sanciti dagli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione Italiana. La Corte è stata chiamata in causa dal Consiglio di Stato, la “Cassazione”, ovvero l’organo supremo della giustizia amministrativa.
Se il numero chiuso sarà giudicato “colpevole” di incostituzionalità, sarà da rifare tutto il sistema che si regge sulla Legge 264 del 1999, firmata dall’allora ministro dell’Istruzione Ortensio Zecchino: quella che stabilisce test d’ingresso in quasi tutte le facoltà e in quasi tutte le università italiane.
Sul banco degli imputati finisce un sistema che dall’inizio degli anni 80 regola l’accesso a molta parte dei nostri atenei. Sistema mutuato dall’America in risposta alle iscrizioni in massa all’università, tendenza in atto dalla fine degli anni 60 e arrestatasi solo qualche anno fa. Il criterio era: garantire ai “meritevoli” un’adeguata istruzione di livello accademico ed evitare il vero “numero chiuso”, quello di chi alla fine si laurea. La crescita esponenziale del numero degli iscritti è andata di pari passo con la diminuzione della percentuale dei laureati sul totale della popolazione universitaria.
Come sappiamo, il numero chiuso non ha risolto questi problemi. Ma abolirlo del tutto, garantendo un accesso libero anche alle facoltà dove non si possono stanziare risorse infinite per comprare macchinari, allargare laboratori, costruire strutture necessarie per l’insegnamento universitario.
Una terza via c’è e potrebbe suggerirla la stessa Corte Costituzionale: applicare quanto dice la discussa legge 264. Ovvero fare un numero chiuso o “programmato” nazionale e con i test che sono già nazionali selezionare su base nazionale chi può accedere a determinate facoltà e chi no. Questo ovviamente implica un investimento nelle strutture – per garantire a chi passa il test un effettivo diritto allo studio- che sempre un’utopia in tempi di spending review.