Massimo Ciancimino torna a parlare, attraverso i cumuli di verbali depositati nel processo sulla cosiddetta «mancata cattura di Provenzano». Parla della trattativa tra Stato e mafia, del coinvolgimento di Marcello Dell’Utri, dell’origine del Silvio Berlusconi imprenditore. Subito arriva la secca replica di Dell’Utri: «é un cretino, un pazzo, un mitomane e potrei usare qualsiasi aggettivo contro chi pompa queste immense minchiate».
Ci furono diverse fasi della «trattativa» fra Stato e mafia. Massimo Ciancimino torna sul punto. E racconta di una iniziale trattativa, condotta da Vito Ciancimino che «parlava» a distanza con Totò Riina, attraverso il contatto del medico-boss Nino Cinà.
In questa delicata operazione l’ex sindaco di Palermo veniva «assistito» da due consiglieri d’eccezione: l’amico Lo Verde, alias Bernardo Provenzano, e il misterioso «signor Franco», uomo dei servizi che non si perdeva una sola tappa di quella inquietante vicenda. Poi la «trattativa» cambiò connotazione e personaggi, fino a giungere alla fase finale, caratterizzata dalla cattura del capo di Cosa nostra, Totò Riina, e dalla comparsa di un nuovo «mediatore» che Massimo Ciancimino – teste della Procura di Palermo – identifica nel senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri.
Poi c’è la spiegazione della corrispondenza fra Provenzano e Vito Ciancimino, portata avanti con il collaudato sistema dei «pizzini». Chi è il «sen.» indicato su uno degli ultimi bigliettini recapitati a don Vito? Massimo, all’inizio cerca di svicolare, poi, costretto, dice: «E’ il sen. Dell’Utri, me lo ha detto mio padre. L’unico, secondo lui, in grado di scavalcarlo nella gestione della trattativa». E a Dell’Utri, secondo Ciancimino jr., era indirizzata la lettera minacciosa con la quale si chiedeva a Berlusconi di «mettere a disposizione una rete televisiva».
Una richiesta, «di amici di Provenzano di avere spazio, di voler dire la loro». E perché? Perché il «destinatario finale era irriconoscente, si stava scordando di certe situazioni». Il destinatario chi? «Il dott. Berlusconi». In quel pizzino si parla anche del «nuovo presidente» – secondo Massimo Ciancimino – l’ex governatore Cuffaro in qualche modo impegnato attraverso il suo partito a «spingere» per l’amnistia, nel pizzino di Provenzano a don Vito definita «la sua sofferenza». Un lavoro politico corale rivolto a sostenere leggi favorevoli alla mafia, di cui Provenzano sembra essere addirittura il regista capace di mobilitare forze, sempre a sentire la versione del giovane Ciancimino.
Anche sull’origine dell’imprenditore Berlusconi il teste dà una versione che si intuisce faccia riferimento a soldi della mafia confluiti a Milano, nella seconda metà degli Anni Settanta. Ma la deposizione è interrotta da un corposo omissis. E le tangenti ai politici? Si parla di somme «consegnate da Romano Tronci all’onorevole Enrico La Loggia» e di 250.000 euro «personalmente consegnate al senatore Carlo Vizzini».
Sia Vizzini che la Loggia hanno querelato Massimo Ciancimino. Il primo ha spiegato che quella cifra era il risultato di un precedente investimento nell’azienda del Gas del prof. Lapis. La Loggia ha invece affermato: «Mi auguro solo che Ciancimino abbia confuso il mio nome con quello di qualcun altro. Comunque lo querelo. Non ne posso più di vedere il mio nome oggetto di calunniose e infamanti affermazioni».
Secca la replica di Dell’Utri dalle colonne del “Corriere della Sera”: Massimo Ciancimino «é un cretino, un pazzo, un mitomane e potrei usare qualsiasi aggettivo contro chi pompa queste immense minchiate».
«Per andare dietro a questo sciagurato bisogna proprio essere più pazzi di lui – prosegue Dell’Utri – Non vorrei incazzarmi ma ci sarebbe da prendere un badile e rovesciarlo addosso a questi cretini». Il senatore, poi, parla di «calunnie artatamente costruite» da Ciancimino, «per salvarsi la pelle» e nega di avere gestito il patrimonio del boss Bontate.
L’unica certezza, secondo Dell’Utri, è un suo incontro con Vittorio Mangano. Quanto alla condanna in primo grado, Dell’Utri dice di essere stato condannato «da un plotone di esecuzione» e il processo è stato «la prosecuzione della requisitoria del pm Ingroia, sodale del presidente Guarnotta».
Per il senatore, se all’epoca del suo processo ci fosse stato il giudice Falcone, il procedimento non si sarebbe tenuto, «mi avrebbe detto – conclude Dell’Utri – vada a lavorare».