Vilipendio. Da Einaudi a Napolitano, da Guareschi a Grillo: neverending story del reato di “lesa maestà”

Vilipendio. Da Einaudi a Napolitano, da Guareschi a Grillo: neverending story del reato di "lesa maestà"
Vilipendio. Da Einaudi a Napolitano, da Guareschi a Grillo: neverending story del reato di “lesa maestà”

ROMA – Il reato di vilipendio è una delle non poche eredità del fascismo sopravvissute fino ad oggi. Introdotto dal Codice Rocco nel 1930, doveva essere abrogato con la Costituzione perché contrario alla libera manifestazione del pensiero, difficile da determinare e interamente sovrapponibile al reato di diffamazione. Così non avvenne allora e non è avvenuto in quasi 70 anni di vita repubblicana.

L’abolizione del reato di vilipendio era una delle battaglie del Pci. Singolare che ora sia proprio un uomo che viene da quella storia, Giorgio Napolitano, a nicchiare di fronte all’ipotesi di abrogare quel reato.

La querelle giuridica è tornata d’attualità dopo che 22 simpatizzanti del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo sono stati messi sotto inchiesta dalla Procura di Nocera Inferiore, per “offesa all’onore e al prestigio del Presidente della Repubblica”, dopo che avevano commentato con frasi ingiuriose all’indirizzo di Napolitano un post sul blog di Grillo nel quale il comico genovese aveva a sua volta definito “una salma” l’attuale presidente.

Grillo ha reagito all’indagine avviata dai pm di Nocera invitando Napolitano ad abrogare il reato:

“Nell’Italia repubblicana esiste un reato che richiama l’assolutismo monarchico e la figura di Luigi XIV: il vilipendio del presidente della Repubblica. Il reato di vilipendio deriva dal Codice Rocco del periodo fascista. Nel ventennio si tutelava dal delitto di lesa maestà la figura del re e di Mussolini, dal dopoguerra i presidenti della Repubblica. Il reato di vilipendio non è qualcosa rimasto sulla carta, a monito. È stato invocato innumerevoli volte, spesso dai partiti a scopi politici, e anche applicato. Il confine tra critica e vilipendio (“considerare vile”) è materia più indefinibile del sesso degli angeli. […] Un cittadino, perché il presidente della Repubblica sarà il primo dei cittadini, ma sempre cittadino rimane, non può essere più uguale degli altri di fronte alla legge. […] Invito il presidente della Repubblica a chiedere l’abolizione dell’articolo 278 sconosciuto nella maggior parte delle democrazie occidentali”

Invito al quale Napolitano ha risposto piccato:

Sul reato di vilipendio “la contestazione di eventuali ipotesi di reato avviene del tutto indipendentemente da ogni intervento del Capo dello Stato, che non è chiamato a dare alcun parere nè tantomeno autorizzazione all’autorità giudiziaria”. L’eventuale abrogazione del reato di vilipendio al capo dello Stato spetta “a chi ha potere di iniziativa legislativa, e dunque non al Capo dello Stato», e «per una decisione su proposte del genere è sovrano il Parlamento”. Ma aggiunge la nota del Quirinale “resta come problema reale di costume politico e di garanzia democratica quello della capacità di distinguere tra libertà di critica e ciò che non lo è, specialmente quando si scada in grossolane, ingiuriose falsificazioni dei fatti e delle opinioni”.

È vero che l’iniziativa legislativa non spetta al Quirinale. Ma è vero anche che negli ultimi anni il Presidente è riuscito con la moral suasion e con la forza derivantegli dalla natura della sua carica ad ottenere risultati che sono andati spesso al di là di quanto gli consentissero i poteri di Capo dello Stato. Napolitano, insomma, non può certo legiferare. Può però stimolare il Parlamento a legiferare. Ma l’abrogazione del vilipendio non sembra fra le sue priorità.

In ogni caso Grillo si sta muovendo in tal senso per conto suo e ha annunciato sul suo blog che depositerà oggi (venerdì 17) in Senato, e lunedì 20 alla Camera, la proposta di abrogazione del reato di vilipendio:

“Sono certo dell’adesione plebiscitaria in aula alla nostra iniziativa. Napolitano è con noi, chi voterà contro l’abrogazione, voterà anche contro il presidente della Repubblica e potrebbe macchiarsi di vilipendio”.

Così per il reato prosegue una lunga storia che, come racconta Filippo Ceccarelli su Repubblica, era iniziata con Giovannino Guareschi, il creatore di Don Camillo e Peppone, che resta, rara avis fra i giornalisti, fra i pochi ad aver affrontato il carcere per diffamazione:

C’era una volta il reato di lesa maestà. Ecco: c’è ancora, ma si chiama vilipendio, nel senso di «offese all’onore e al prestigio del Presidente della Repubblica», articolo 278 del Codice Penale.
Si può aggiungere che da anni gli stessi capi di Stato, oltre a parlamentari, giuristi, operatori dell’informazione e della satira volteggiano su questo fuggevole delitto per alleggerirlo a addirittura toglierlo di mezzo, ma in definitiva tutti hanno finito per affezionarvisi e così dagli albori della Prima Repubblica ai blog della Terza, la casistica degli oltraggi e dei presidenti più o meno oltraggiati appare senz’altro vasta, giudiziariamente complessa e opportunamente stralunata.

Si parte dunque con una vignetta, anzi con una serie di vignette di Carletto Manzoni via via pubblicate nel 1950 sul Candido di Giovannino Guareschi. Quella che fa scoppiare il caso s’intitola «Al Quirinale» e raffigura Luigi Einaudi, senatore e produttore di vini, che passa in rassegna due schiere di bottiglie del suo Nebiolo come se fossero corazzieri. Guareschi si becca otto mesi, che quando pubblica dei documenti (falsi) su De Gasperi si sommano alla seconda condanna e quindi finisce dentro per più di un anno.

Si arriva agli anni 80 e 90, quando con Sandro Pertini si inaugura una lunga stagione di protagonismo della prima carica dello Stato. Più ci si espone, più si rischia di non incontrare approvazione unanime. Ma nel modo di affrontare il vilipendio, Pertini e Francesco Cossiga sono molto più sportivi del loro successore Oscar Luigi Scalfaro, al quale però tocca sorbirsi insulti da Seconda Repubblica, molto più pesanti di quelli più felpati della Prima:

Da allora con i presidenti non si scherza – almeno per un po’. A partire dagli anni 90, infatti, parte una sarabanda di presunti vilipendi entro cui è difficile anche solo orientarsi per via delle procedure bizantine, delle configurazioni incerte, delle segnalazioni annunciate e/o archiviate, delle autorizzazioni date o negate, dei procedimenti che svaniscono nelle pieghe del sistema mediatico. E comunque, per sommi capi. Le esternazioni e poi le picconate di Cossiga gli attirano diverse offese. Lui, come già Pertini, fa lo sportivo e dice che non fa niente, oppure – quando nel 1991 in una trasmissione di Santoro va in onda un beffardo Blob – addirittura difende gli autori per potersela prendere meglio con i politici.

A Scalfaro, specie dopo il ribaltone, tocca il primato dei vilipendi. La prima insolenza a finire sub judice è di Bossi, che platealmente butta nel cestino l’avviso di garanzia davanti a un giornalista del Financial Times. Sgarbi, in tv, ne colleziona un paio e ha così poche remore che in studio devono mettergli il bip appena accenna al Quirinale. Su denuncia del professor Passigli, in un colpo solo finiscono indagati Berlusconi, Fini, Previti, Ferrara e Pannella. A quel punto il senatore di An Misserville, che peraltro ha già polemicamente battezzato il suo cane con il nome di Oscar Luigi, arriva ad autodenunciarsi fornendo le prove del suo stesso vilipendio, un articolo e un filmato di tg, e in seguito incorniciando l’atto di notifica da parte della Procura. Verranno tutti archivati. Ma indagini atte a verificare tale fattispecie toccano anche a Luca Josi, che a proposito del presidente ha parlato di «ipocrisia siderale», a Vittorio Feltri, ancora a Pannella e a Rita Bernardini, un giorno le forze dell’ordine irrompono a Radio radicale e la perquisiscono. Di nuovo il senatore e professore Passigli, denuncia Giulianone Ferrara. Ma l’unico di quella stagione che sarà condannato, a otto mesi (come Guareschi) è Licio Gelli che ha firmato un articolo sul mensile Il Piave dal titolo: «Ma Scalfaro è davvero cattolico?».

Venendo ai vilipendi del nuovo millennio, nessuno tocca Carlo Azeglio Ciampi mentre Giorgio Napolitano si attira le invettive di troppi:

“Il settennato di Ciampi risulta felicemente esonerato da episodi e controversie sul vilipendio. Non lo stesso si può dire del periodo Napolitano. Ricco e variegato è l’elenco dei denigratori che in varie forme e misure, con esiti diversi e differente notorietà incappano in questo reato così legato alle pastoie del momento politico e altrettanto scivoloso da dimostrare.
Si va dagli Schuetzen a un irrispettoso Storace, che prima viene «salvato» dai colleghi senatori, poi si scusa con Napolitano, è perdonato, quindi finisce di nuovo nei guai, ma il Quirinale considera il caso chiuso; da Di Pietro, per un paio di comizi, ma sempre senza seguito, a Belpietro per una vignetta di Benny (titolo: «Assedio ai Papponi di Stato»), poi premiata alla kermesse di Forte dei marmi e per un articolo legato a una visita del presidente in Giappone e al funerale di alcuni caduti in Afganistan. Per gli stessi motivi è accusato Peppino Ciarrapico. Già nel maggio del 2012 attivisti del M5S avevano infine sentito risuonare l’articolo 278 cp per quanto scritto sui loro blog. Non sarebbe male se questa storia finisse qui per sempre”.

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