ROMA – Anche la globalizzazione fa marcia indietro: produrre in Cina non conviene più. Un salario medio cinese era nel 2000 di 0,72 dollari l’ora. Si avvia ad essere nel 2015 di 8,16 dollari l’ora. Il vantaggio di portare le fabbriche occidentali nella “Grande Fabbrica” del pianeta si riduce al 15 per cento del costo del lavoro. Quindi il colosso della produzione di giocattoli, Wham-O, ha riportato i suoi stabilimenti in California e Michigan. Caterpillar installa una nuova fabbrica non in Asia ma in Carolina del Nord, Flextronics punta sul Messico, Ikea ha ridotto sotto il 20 per cento del totale dei suoi acquisti quelli effettuati in Cina. Perché in Cina crescono i prezzi al ritmo di una inflazione ufficiale al 6,5 per cento. Aumenta il prezzo dei generi alimentari, 15 per cento, gli operai chiedono aumenti di salario. In Cina chiudono aziende straniere. sono già 265 ad averlo fatto. E quelle che restano diminuisco gli ordinativi. Ordinativi che calano anche perché americani ed europei consumano sempre meno.
La Cina cero continua a “tirare”: il Pil crescerà ancora dell’otto per cento. Ma la globalizzazione ha cominciato eccome a “girare”. Vietnam, Cambogia e Indonesia stanno sottoponendo la Cina allo stesso trattamento cui la Cina ha finora sottoposto i distretti produttivi americani ed europei: insostenibile concorrenza sul prezzo anche se non sulla qualità delle merci. E la globalizzazione comincia a far “girare” la Cina: deve sviluppare mercato interno se non vuole fermarsi. Ha bisogno di welfare per l’invecchiamento della popolazione, comincia a conoscere tensioni sociali. L’asse su cui si reggeva il mondo fino ad ieri: Cina produce, Occidente consuma, Occidente fa debito, Cina compra il debito con i proventi delle esportazioni…quest’asse “terrestre” dell’economia si sta spostando. E nessuno può dire se sia una buona o cattiva notizia.