TEL AVIV – Di giorno erano arabi che lavoravano, partecipavano a riti religiosi in moschea, insegnavano il Corano ai figli. Ma quando potevano svicolare, emergevano nel comando dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) ed in perfetto ebraico aggiornavano il loro comandante, Shmuel Moria.
Quasi mezzo secolo dopo il suo scioglimento, l’esistenza di una unità ebraica di ‘agenti in sonno’ disseminati in località arabe in Israele per raccogliere informazioni di intelligence viene rivelata da una nuova rivista di questioni militari, Israel Defense.
La rivelazione stessa ha un alone di mistero. Diretta da uno specialista di questioni di sicurezza (Amir Rapaport) e rafforzata dalla collaborazione di Dany Yatom (ex capo del Mossad), David Ivri (ex comandante dell’areonautica militare) e Shlomo Aharonishky (ex capo della polizia), la rivista uscirà solo la settimana prossima.
Il servizio sugli ‘agenti in sonno’ è stato però anticipato da un sito web di ebrei ortodossi, Kikar ha-Shabat. La vicenda ha inizio all’indomani della guerra di Indipendenza di Israele (1948-49) quando il premier David Ben Gurion deve misurarsi con la presenza di una minoranza araba su cui impone un ‘governo militare’ (che resterà in vigore fino al 1966).
Il controllo delle zone arabe in Galilea, nel centro del Paese e nel Neghev resta problematico: da qui l’idea di infiltrarvi agenti fluenti in arabo. La scelta – spiega la rivista – cadde su ebrei immigrati da Paesi arabi, in particolare dall’Iraq. Di giorno vivevano da palestinesi, e nei momenti liberi tornavano alle loro famiglie ebree.
In una seconda fase dell’operazione a un certo numero di agenti fu ordinato di sposare donne arabe (ignare delle loro attività), di costituirsi famiglie, e di restare nelle loro zone nel caso che eserciti arabi dovessero rioccuparle. Per gli agenti ‘in sonno’ iniziò così una vita di routine. Ma alla metà degli anni Sessanta ci fu un ripensamento e lo Shin Bet si vide costretto a convocare la spose arabe per metterle di fronte alla dura realtà. Ci furono svenimenti, scrive la rivista, sfoghi di collera, drammi coniugali. Una delle donne passò in Giordania per sposare un fedayn palestinese.
Israele, secondo la rivista, compensò materialmente le coppie coinvolte. I figli di quelle unioni che lo richiesero furono riconosciuti ebrei da uno speciale tribunale rabbinico, convocato nella massima segretezza. Ma ormai erano prigionieri di problemi di identità. Al momento di arruolarsi nell’esercito uno di loro chiese: ”Il fucile che mi avete appena dato, devo puntarlo verso la mia famiglia palestinese, oppure verso quella israeliana?”
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