Zucconi: “Il mio 11 settembre, cavallo stanco di un’America sconfitta”

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 9 Settembre 2011 - 15:59| Aggiornato il 10 Settembre 2011 OLTRE 6 MESI FA

Torniamo alle ore degli attentati. C’è un momento, dopo i tre aerei schiantatisi su Torri Gemelle, Pentagono e il quarto che era destinato al Campidoglio, in cui si pensa a una guerra in corso.
 «Chi fa il nostro mestiere spesso non ha il tempo di pensare, come si vede spesso da quello che viene pubblicato… Vivemmo tutti in uno stato di choc. Facemmo molta fatica a metabolizzare quello che era successo. Anche uno come me che aveva visto guerre, che era stato in via Fani la mattina del rapimento di Moro con i cinque agenti di scorta ammazzati. Cose brutte ne ho viste tante, come europeo e come giornalista. Però questa aveva una scala che non era del tutto comprensibile, proprio nel senso letterale di “comprendere”, di riuscire a prendere tutto insieme. Lavoravamo tutti meccanicamente, scrivendo a mano a mano le cose che vedevamo, che sentivamo dire, le impressioni, le ipotesi. Si pensi soltanto allo choc di Bush: l’Air Force One svolazzò sopra i cieli dell’America per ore e ore senza mèta, atterrando solo in due basi, una in Louisiana e una in Nebraska. Dove lui fu portato in rifugi anti atomici. La prima riunione che Bush fece con i suoi collaboratori fu in un bunker anti atomico».

Si faceva fatica a realizzare quello che era successo.
«È veramente come dopo la perdita di una persona cara, per un po’ vai avanti con quello che devi fare, c’è da organizzare il funerale, poi c’è il testamento, c’è da mettere via la roba, poi avvertire le persone… occorrono giorni e giorni perché tu ti renda conto di quello che è successo, se è una morte improvvisa come è stato improvviso l’11 settembre. Ancora adesso ogni volta che vado a New York penso di veder spuntare quelle due ciminiere, quei due fumaioli da nave che vedevi quando scendevi dall’autostrada 95 proveniente da Nord. È una specie di stupor, di sbalordimento in cui noi giornalisti eravamo, con la possibilità di scaricare tutto sulla carta o davanti a una telecamera. Facendo come dicevano gli alpini in Russia: andare mettendo un piede davanti all’altro senza preoccuparsi della direzione. Noi giornalisti eravamo come sonnambuli, in quelle ore. Ci trascinammo meccanicamente fino all’elaborazione delle conseguenze politiche, fino a quando fu chiaro che il numero di morti era quello che era, e non c’era stata quella strage di decine di migliaia di vittime di cui si era parlato in un primo momento. Quando fu chiaro che l’America non era stata decapitata dal punto di vista dell’amministrazione, che non era morto il presidente, non erano stati uccisi i generali… allora la necessità di analizzare poi prese progressivamente il posto del sonnambulismo. Io pensai subito che si sarebbe andati verso una guerra, pensavo ad una invasione massiccia dell’Afghanistan che poi non c’è stata: fecero un’operazione molto superficiale che come abbiamo visto non è servita a nulla, mentre avevano già deciso di andare in Iraq – oggi lo sappiamo».

George Bush sulle rovine di Ground Zero (Ap-Lapresse)

Ci fu un momento preciso in cui iniziò a mettere a fuoco quello che stava succedendo?
«Quando andai a New York a vedere Bush in piedi sulle rovine a dire, col “magone”: “Vi vendicheremo, questo non passerà impunito, li troveremo”. Su quelle macerie ancora fumanti che restarono roventi ancora per settimane. Di fianco ai pompieri. Lì capii che l’America aveva imboccato una strada dalla quale difficilmente sarebbe tornata indietro. Erano i giorni in cui i nostri punti di riferimento giornalistici, i commentatori progressisti, “liberal”, vennero contagiati dalla “falchite”. Paul Keller (che allora era un editorialista e che poi è diventato direttore del New York Times) scrisse: “Non posso credere di essere diventato un falco”. Era impossibile restare immuni alla “falchite” vedendo Bush in piedi su quelle rovine, sotto le quali c’erano ancora centinaia di resti umani, molti dei quali non furono mai identificati. Ma fu anche il momento in cui pensai che, ahimè, quella era una nazione che rischiava di perdere la testa: infatti l’ha persa».

Che ne pensa di come Bush gestì il dopo-11 settembre?
«Girava molto l’America per parlare, aveva ben chiaro che gli Usa hanno bisogno di un presidente-papà, non “papi”: papà, nel senso di pontefice, di avatar, di sciamano. L’America vuole che le si rimbocchino le lenzuola, che le si racconti una storiella prima di addormentarsi. Bush l’aveva capito e parlava moltissimo, ripetendo sempre le stesse cose. Fece anche bene a correggersi quando disse: “Noi non siamo in guerra contro l’Islam, siamo in guerra contro chi ci attacca”, dopo che gli era scappata la gaffe “questa è una crociata” che aveva mandato in bestia tutti.
Bush fece quello che poteva fare, era quello che era. Io, che non ho mai amato Bush, non credo che un altro presidente avrebbe potuto comportarsi diversamente: la spinta, lo tsunami di emozioni che aveva alle spalle lo avrebbero indotto a fare un’azione militare, certamente in Afghanistan.
L’Iraq è un altro discorso. Quello fu l’inizio della fine per l’America, che ha sempre bisogno di percepirsi moralmente superiore agli altri. “La città luminosa sulla collina”, come dice la Bibbia e come ripeteva Reagan. Oppure il “buono” dei film, the good guy: l’americano si deve sentire dalla parte dei buoni. Infatti Bush ripeteva spesso: “Noi siamo il bene e combattiamo contro il male”. E il senso di superiorità morale degli Usa ha subito una costante erosione in questi anni. È stato distrutto a Guantanamo, ad Abu Ghraib. Quella è stata la grande battaglia perduta di questa guerra: le torture, il waterboarding, l’extraordinary rendition, la consegna di prigionieri ai regimi perché li torturassero. Per non parlare dei “danni collaterali”, gli iracheni e gli afghani innocenti ammazzati da pallottole e da bombe».