ROMA – Affascinato dai “leader assertivi”, dai dittatori: è il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi visto dagli occhi degli Stati Uniti. A rivelare una tendenza berlusconiana non certo inaspettata, almeno agli occhi degli italiani, sono le carte di WikiLeaks pubblicate oggi, 25 febbraio, dall’Espresso, e anticipate da Repubblica.
Gli Stati Uniti dedicano molta attenzione alle relazioni internazionali di Berlusconi, ai suoi contatti preferenziali con leader coma Aleksandr Lukashenko, Muhammar Gheddafi, Vladimir Putin o Hosni Mubarak.
Il presidente del Consiglio italiano gestisce il “sexier portfolio”, ovvero le relazioni più “interessanti”, mentre al ministro degli Esteri Franco Frattini toccano gli argomenti importanti.
E così il premier sembra dimenticare gli interessi nazionali. Lo sostengono gli americani, in riferimento al summit con il deposto leader tunisino Ben Ali del 18 agosto 2009 a Cartagine.
In quell’occasione, definita “una visita così privata che nessuno dei due ministri degli Esteri è stato coinvolto”, Berlusconi non risparmia “barzellette su Obama e sul Papa”. E appunto, i ministri degli Esteri non ci sono. Ma il premier italiano non è solo: con lui c’è l’amico Tarek Ben Ammar, produttore cinematografico tunisino socio di Berlusconi in alcune imprese mediatiche.
La presenza di Ben Ammar viene spiegata da Washington in quanto l’uomo è “socio d’affari e consigliere di lunga data” di Berlusconi. Si sottolineano gli interessi privati del premier in Tunisia, che “comprendono studi cinematografici, società di distribuzione e il 50% di Nessma tv”, posseduta in società proprio con Ben Ammar.
Unica la finalità dell’incontro, secondo gli Usa: “Per la stampa locale hanno firmato un accordo per produrre energia in Tunisia che in realtà è stato firmato nel 2003”.
Mubarak e Berlusconi dopo cena “si raccontano i loro incontri con quel pazzerello di Gheddafi e ridono”, si scambiano pacche sulle spalle attribuendosi il merito di avere addomesticato il Colonnello. “Italia ed Egitto condividono lo stesso pensiero – scrive la diplomazia Usa – ritengono di meritare il più grande credito per avere ammorbidito Gheddafi”.
Gli incontri con il rais libico Gheddafi sono sempre seguiti con ansia. “Discutono solo in termini generici” di immigrati, ma in compenso “si sono scambiati doni carini”: Berlusconi “ha promesso di restituire la statua della Venere di Cirene”, Gheddafi “gli ha regalato un moschetto dell’occupazione italiana”. Una provocazione che il Cavaliere non sembra cogliere quando loda “l’esperienza” del Colonnello e “le opportunità di business” per l’Italia a Tripoli. Per Washington Berlusconi avrebbe offerto al Colonnello “i suoi buoni uffici con gli Usa”. Di certo, aggiungono, accetta di aprire “fondi sovrani senza trasparenza”, come l’investimento libico in Unicredit.
Un’altra amicizia finita sotto la lente d’ingrandimento della diplomazia Usa è quella con l’ex presidente e attuale premier russo Vladimir Putin. Dopo un vertice nel 2002 due file segreti descrivono: “Putin ha telefonato a Bush alla presenza di Silvio per chiedergli di accelerare le trattative in modo da firmare il trattato Nato-Russia durante il summit di Pratica di Mare”.
Gli americani ne sono imbarazzati. Rientrato a Roma Berlusconi incontra l’ambasciatore Usa Mel Sembler e gli chiede di inoltrare “una richiesta personale” a Bush: “Vladimir deve essere visto come parte della famiglia della Nato”. Annotano gli americani: “Non capiamo se la cosa interessa più a Putin o più a Berlusconi”.
Un altro aspetto che infastidisce Washington è l’indifferenza di Berlusconi al rispetto dei diritti umani. “Berlusconi preferisce evitare frizioni, anche se così trascura verità scomode”.
A salvare le apparenze prova la Farnesina, che dopo il discusso incontro di Berlusconi con il dittatore bielorusso Lukashenko nell’aprile del 2009: il ministro Frattini cerca di rassicurare gli americani dicendo loro che i due leader hanno parlato anche di diritti. Ma sarà lo stesso Lukashenko a smentire questa versione.
In realtà il motivo dell’incontro sarebbe stato sbloccare le adozioni di trenta bambini bielorussi da parte di famiglie italiane. Un motivo che la Farnesina definisce “ragioni umanitarie”. Washington restano sbigottiti: “Berlusconi ha deciso da solo di rompere l’isolamento di Lukashenko, non si è consultato con l’Europa”.
La presenza di Washington si fa sentire anche all’interno del governo. Nel 2009 l’ambasciatore Ronald Spogli scrive: “Abbiamo dei potenti alleati in Frattini e La Russa, ma si sono ripetutamente scontrati con il muro del budget eretto da Tremonti“.
Il nodo del contendere è il finanziamento delle missioni militari in Libano e Afghanistan. I due ministri chiedono agli Usa di fare pressioni su Berlusconi contro il ministro dell’Economia. Su una commessa di aerei militari l’ambasciatore Usa scrive: “È possibile che lo staff di La Russa stia usando la questione come un’arma nella partita per la Finanziaria. Sperano di sollecitare un intervento di alto livello in loro favore. Ma in Italia nulla è mai certo”.
Tremonti viene visto dagli americani come un uomo della Lega e aspirante “erede” di Berlusconi. Piace perché blocca le “misure populiste” del premier, ma non convince per come affronta la crisi. Il “contrappeso” ideale è Mario Draghi, come suggerisce all’ambasciatore americano Francesco Galietti, “un leale collaboratore del ministro dell’Economia”. Ma, in un colloquio riservato, il governatore respinge le lusinghe statunitensi e rifiuta qualunque commento su Tremonti.