ROMA – “Bollettino calabrese su carta nella stamperia del sindaco” è il titolo dell’articolo di Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera:
È dal lontanissimo 1990, l’anno dei Mondiali e delle «Notti magiche» di Edoardo Bennato e Gianna Nannini, del film «Balla coi lupi», dello scudetto al Napoli di Bigon e dell’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein che l’Italia ha deciso, a parole, di passare al digitale. La legge n. 241/1990 diceva che «per conseguire maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche incentivano l’uso della telematica, nei rapporti interni, tra le diverse amministrazioni e tra queste e i privati».
È trascorso, da allora, quasi un quarto di secolo. Più del tempo necessario a Gengis Khan per conquistare il suo impero. Nel 2005, 15 anni dopo quella dichiarazione di intenti, il decreto legislativo n. 82, denominato «Codice dell’amministrazione digitale», insisteva: «Le pubbliche amministrazioni nell’organizzare autonomamente la propria attività utilizzano le tecnologie dell’informazione e della comunicazione per la realizzazione degli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità, imparzialità, trasparenza, semplificazione e partecipazione». Tre anni più tardi, visto che si muoveva poco o niente, ecco un altro decreto, il n. 112 del giugno 2008, denominato ambiziosamente «Decreto Taglia Carta»: «Al fine di ridurre i costi di produzione e distribuzione, a decorrere dal 1° gennaio 2009, la diffusione della “Gazzetta Ufficiale” a tutti i soggetti in possesso di un abbonamento a carico di amministrazioni o enti pubblici o locali è sostituita dall’abbonamento telematico».
Fine del tormentone? Macché. Come se non fosse già stato deciso prima, l’articolo 32 della legge 69 del 18 giugno 2009 torna sul tema: «A far data dal 1° gennaio 2010 gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici…».
E finalmente, il 6 aprile 2011, ventuno anni dopo le prime disposizioni del ‘90, la Calabria si adeguava e istituiva, con spericolata proiezione nel futuro, il «Bollettino Ufficiale Telematico della Regione Calabria». Già che c’era, la Regione governata dal pidiellino Giuseppe Scopelliti, si avventurava nel cyberspazio tecnologico: «Il BURC è pubblicato esclusivamente in formato digitale a partire dal 1° gennaio 2012». Evviva! Come i Paesi moderni!
«La pubblicazione, libera, permanente e gratuita, esclusivamente in formato digitale, sull’apposita sezione del sito web della Regione Calabria e del consiglio regionale, oltre a un oggettivo e misurabile elemento di riduzione specifica dei costi», esultò Giuseppe Caputo, presidente berlusconiano della Iª commissione Affari Istituzionali, «contribuisce a consolidare quel complessivo messaggio di snellimento amministrativo e di azzeramento progressivo dei centri di spesa di cui l’istituzione regionale deve e vuole farsi carico in tutti i settori di intervento. Senza contare il valore aggiunto di sostenibilità ambientale connesso a questo provvedimento: un anno in meno di carta sprecata in quantità industriali».
Tanto più che, spiegava l’esponente pidiellino che più volte si sarebbe lamentato dei ritardi, il risparmio complessivo, tra carta, stampa, distribuzione e così via era esattamente, per quell’anno, di 1.682.859 euro e 77 centesimi. «Non ci posso credere!», sbotta Roberto Ciambetti, leghista, assessore al bilancio del Veneto. E spiega che la sua Regione, la quale pubblica da un pezzo il bollettino ufficiale soltanto online, spendeva nel 2010 per la carta e la stampa 120.000 euro e per la distribuzione altri 75.000 per un totale di 195.000. Vale a dire, se prendiamo per buoni i numeri di Caputo, l’11,5% della omologa spesa calabrese.
Di più, un comunicato ufficiale della Regione Veneto aggiunge: «Considerato che, nello stesso periodo, le entrate relative agli abbonamenti sono risultate pari a circa 109.000 euro, il risparmio di spesa annuo stimabile per la Regione è di circa 86.000 euro. Tenuto ulteriormente conto che la maggior parte degli abbonamenti è sottoscritta da enti pubblici, il risparmio, per detti enti, è stimabile in circa euro 73.000. Ne deriva che il risparmio annuo complessivo per il sistema pubblico regionale si attesta a circa 160.000 euro». Anzi, «sotto il profilo delle entrate si rappresenta che le inserzioni a pagamento hanno generato, nel 2012, entrate per oltre 270.000 euro».
L’immensa sproporzione tra i costi dei due «prodotti» analoghi, però, è solo un pezzo della storia. Come denunciavano qualche settimana fa Pietro Bellantoni su Il Corriere della Calabria e successivamente una rovente interrogazione parlamentare del consigliere regionale Mimmo Talarico, l’abolizione del bollettino ufficiale calabrese su carta in nome della scelta digitale non è mai avvenuta. E la stampa della «gazzetta» regionale, a dispetto della legge votata tre anni fa, è proseguita per tutto il 2012 e poi per tutto il 2013 ed è già uscito il primo numero del 2014 minacciando di andar avanti all’infinito.
Come mai? Per nove lunghe settimane, mentre il sostituto procuratore di Catanzaro Gerardo Dominijanni apriva un’inchiesta sulla strana faccenda, il governatore non ha trovato un minuto per rispondere all’interrogazione parlamentare. Forse perché, scommettono i maliziosi, la risposta va ricercata nella tipografia benedetta dalla fortunata commessa pubblica. E cioè «l’Azienda “Abramo Printing e Logistic”, di proprietà della famiglia del sindaco di Catanzaro Sergio Abramo». Il quale, guarda caso, appartiene alla stessa maggioranza di destra che ha in pugno la Regione. E davanti alle denunce ha pensato bene di starsene zitto zitto, quatto quatto. Tanto, prima o poi, gli scandali passano. E gli appalti restano.