ROMA – “Brava Marine Le Pen, addio Gianfranco Fini“: Vittorio Feltri cerca spiegazione di un successo e di un fallimento. Fra Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale, che si è affermata alle elezioni amministrative in Francia e Gianfranco Fini, disperso nel nulla della politica italiana dopo avere sacrificato sull’altare del Pdl di Berlusconi l’eredità del Movimento Sociale Italiano, che differenza c’è?
Vittorio Feltri sul Giornale ha cercato di capire e di farci capire, in un articolo sul Giornale:
“la spiegazione di un successo e di un fallimento”
che
“è tutta qui: chi non si aggiorna è un perdigiorno e si dissolve”.
Vittorio Feltri parte con il tono della favola:
“C’era una volta una destra un po’ becera, fascistoide, abbastanza razzista, che in Francia era rappresentata da Jean-Marie Le Pen, un uomo duro e consapevole di doverlo essere perché il suo partito, per quanto rimediasse sempre qualche successino, combatteva contro una maggioranza sinistroide dominante. In Italia lo stesso tipo di destra era capitanato da Giorgio Almirante, abile oratore che presto cedette lo scettro a Gianfranco Fini, dovendo fare un passo indietro per motivi di salute.L’erede aveva una caratteristica in comune con colui che lo aveva promosso e sponsorizzato: un notevole talento dialettico e la capacità di cavarsela brillantemente nei dibattiti televisivi, nei comizi, in ogni circostanza nella quale fosse richiesta lingua lunga.
Mi riferisco agli anni Ottanta e Novanta, quando i principali avversari della sinistra erano gli ex fascisti, considerati gente di serie B, ignoranti e privi di charme. Andiamo oltre. Col passare del tempo, il vecchio Le Pen si ritirò e lasciò alla figlia Marine il compito di condurre il partito. Un partito solido, ma minoritario e condannato a rimanere tale. Così almeno sembrava.
L’uscita di scena di Almirante favorì l’ascesa di Fini, che, tuttavia, col suo Msi non pareva attrezzato per sfondare il tetto del 5-6 per cento dei consensi.
Da quei tempi molta acqua è scorsa sotto i ponti. Siamo arrivati al XXI secolo ed è giunto il momento di fare un consuntivo sugli ex fascisti.
Marine Le Pen, avendo rinnovato la linea politica paterna, trascinandola fuori dal «recinto nero» e cavalcando un nazionalismo razionale e un antieuropeismoavveduto e fondato su elementi concreti, sta trionfando in Francia, al punto di essere in procinto di conquistare la maggioranza. Fini, viceversa, pur essendosi mosso da una buona posizione grazie all’apparentamento con Forza Italia, guidata da Silvio Berlusconi, è pressoché scomparso, lui e il gruppone di Allenza nazionale, figlia del Msi. Domanda: perché Marine è decollata e Gianfranco si è inabissato? Un motivo ci sarà, stante il fatto che la situazione italiana e quella francese non sono poi tanto diverse. Cerchiamo di capire.
Madame Le Pen non si è mai agganciata a nessun carro. Ha creduto nella propria forza, nelle proprie idee, ed è andata avanti per la sua strada sicura di avere davanti a sé delle praterie da invadere. E le ha invase con tenacia, interpretando i sentimenti dei transalpini in modo corretto.
Ovvero: ostilità verso un’Europa unita che, di fatto, unita non è; lotta all’immigrazione clandestina indiscriminata; nazionalismo moderato;protezione dell’economia nazionale; difesa della patria; nessuna concessione alle mode progressiste. Insomma, irrobustimento dello spirito francese in opposizione all’euroentusiasmo della sinistra bancaria e finanziaria.
Risultato: il Fronte nazionale ha marciato speditamente diventando protagonista della competizione politica transalpina. Esagero: si è attrezzato per vincere ed imporre la propria visione politica. Piaccia o non piaccia, questo è il concetto.
Fini, poveraccio, è rimasto a secco. Peggio: non esiste più, scomparso, travolto dai propri errori macroscopici. Egli infatti, dopo aver raggiunto il 15 per cento circa dei voti, si è montato la testa. E l’ha persa. Pur di andare al governo si è associato a Berlusconi, col contributo del quale ha ottenuto poltrone ministeriali e di sottogoverno, è diventato vicepresidente del Consiglio e successivamente presidente della Camera. Un’ottima performance sotto il profilo dell’occupazione del potere. Nel momento in cui Alleanza nazionale confluì nel Popolo della libertà, cioè nel partito unico di centrodestra, Fini si persuase di poter menare il torrone a piacimento. E tentò di esautorare Berlusconi piazzandosi al suo posto o almeno di condizionarne l’attività, spostando a sinistra l’asse politico. Velleità. Errore tattico e strategico.
Anziché continuare a essere avversario della sinistra, egli mirò a compiacerla allo scopo di stabilire con essa una sorta di tacita alleanza. In pratica Fini desiderava – ingenuamente – far fuori Berlusconi onde ingraziarsi gli ex comunisti, senza la cui benedizione in Italia non sei legittimato a fare politica. Comprendo la debolezza dell’erede di Almirante, ma ne condanno la condotta. In effetti i progressisti hanno sostenuto Fini finché questi si è battuto per sfasciare il Pdl, facendo il loro gioco; ma quando il centrodestra è stato costretto ad abbandonare il governo, i partiti di sinistra, soddisfatti, hanno scaricato l’«infiltrato» non avendo più bisogno di lui.
Oggi, l’ex presidente della Camera ed ex numero due del Pdl è fuori dal Parlamento: uno zero assoluto. Ha fatto una fine miserrima e difficilmente potrà risorgere. Mentre la sua omologa, Marine, che non ha mai mirato alle poltrone, bensì all’affermazione dei propri ideali – giusti o sbagliati che siano – sta strappando risultati mirabolanti. La coerenza e la fedeltà ai princìpi pagano. Purtroppo si pagano anche le deviazioni utilitaristiche: e il debito di Fini in questo senso è enorme, impossibile da saldarsi”.
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