Il Corriere della Sera: “Italicum, Renzi trova l’accordo”. Quel filo ormai troppo sottile. Editoriale di Antonio Polito:
Il filo da acrobata su cui Renzi cammina ha resistito alla prima prova della legge elettorale, ma si è fatto molto più sottile. Ora che è al governo, il premier ha dovuto scegliere tra le due maggioranze, e ha ovviamente preferito quella di governo. Più ancora che Alfano, a imporlo è stato il Pd. Dal Pd non renziano, tuttora in maggioranza a Montecitorio, viene l’emendamento vincente che limiterà la riforma elettorale alla Camera, e da quel Pd Renzi rischiava, in caso contrario, una sonora bocciatura in Aula. Berlusconi, il contraente dell’altro patto, ha dovuto accettare, seppure con «grave disappunto». Per un po’ di tempo il Cavaliere non potrà fare molto altro. Da oggi le due maggioranze di cui disponeva Renzi si sono ridotte a una e mezza: quella con Alfano, che si allarga a Berlusconi sulle riforme. D’altra parte, l’ultima volta che una doppia maggioranza ha funzionato risale ai tempi di De Gasperi a Palazzo Chigi e Terracini alla Costituente. Altri uomini.
Il compromesso trovato ieri ha una sua logica. «Avremmo fatto ridere il mondo con una riforma elettorale inapplicabile per il Senato», ha detto ieri il senatore Quagliariello, e ha ragione. Però la soluzione escogitata non suscita minore ilarità: una riforma applicabile solo alla Camera. Il che vuol dire che se per caso o per scelta il Parlamento non eliminerà del tutto il Senato elettivo, alle prossime votazioni avremo un sistema che dà certamente una maggioranza a Montecitorio e altrettanto certamente non la dà a Palazzo Madama. Provate a spiegarlo a un marziano, o anche a un tedesco. Se si aggiungono le tre soglie diverse, un premio di soli sei seggi e la deroga alla Lega, si apprezza fino in fondo l’«esprit florentin » della riforma che sta nascendo.
Come tutte le soluzioni a metà anche quella trovata ieri contiene una buona opportunità ma anche un immenso rischio. Garantisce al Parlamento il tempo necessario, gliene servirà più di un anno, per cambiare la Costituzione. Ma il fallimento, o la dilazione alle calende greche, stavolta ci precipiterebbe in una situazione perfino peggiore di un pessimo passato.
L’intervista a Papa Francesco:
I rapporti con il suo predecessore. Ha mai chiesto qualche consiglio a Benedetto XVI?
«Sì. Il Papa emerito non è una statua in un museo. È una istituzione. Non eravamo abituati. Sessanta o settant’anni fa, il vescovo emerito non esisteva. Venne dopo il Concilio. Oggi è un’istituzione. La stessa cosa deve accadere per il Papa emerito. Benedetto è il primo e forse ce ne saranno altri. Non lo sappiamo. Lui è discreto, umile, non vuole disturbare. Ne abbiamo parlato e abbiamo deciso insieme che sarebbe stato meglio che vedesse gente, uscisse e partecipasse alla vita della Chiesa. Una volta è venuto qui per la benedizione della statua di San Michele Arcangelo, poi a pranzo a Santa Marta e, dopo Natale, gli ho rivolto l’invito a partecipare al Concistoro e lui ha accettato. La sua saggezza è un dono di Dio. Qualcuno avrebbe voluto che si ritirasse in una abbazia benedettina lontano dal Vaticano. Io ho pensato ai nonni che con la loro sapienza, i loro consigli danno forza alla famiglia e non meritano di finire in una casa di riposo».
Il suo modo di governare la Chiesa a noi è sembrato questo: lei ascolta tutti e decide da solo. Un po’ come il generale dei gesuiti. Il Papa è un uomo solo?
«Sì e no. Capisco quello che vuol dirmi. Il Papa non è solo nel suo lavoro perché è accompagnato e consigliato da tanti. E sarebbe un uomo solo se decidesse senza sentire o facendo finta di sentire. Però c’è un momento, quando si tratta di decidere, di mettere una firma, nel quale è solo con il suo senso di responsabilità».
Lei ha innovato, criticato alcuni atteggiamenti del clero, scosso la Curia. Con qualche resistenza, qualche opposizione. La Chiesa è già cambiata come avrebbe voluto un anno fa?
«Io nel marzo scorso non avevo alcun progetto di cambiamento della Chiesa. Non mi aspettavo questo trasferimento di diocesi, diciamo così. Ho cominciato a governare cercando di mettere in pratica quello che era emerso nel dibattito tra cardinali nelle varie congregazioni. Nel mio modo di agire aspetto che il Signore mi dia l’ispirazione. Le faccio un esempio. Si era parlato della cura spirituale delle persone che lavorano nella Curia, e si sono cominciati a fare dei ritiri spirituali. Si doveva dare più importanza agli Esercizi Spirituali annuali: tutti hanno diritto a trascorrere cinque giorni in silenzio e meditazione, mentre prima nella Curia si ascoltavano tre prediche al giorno e poi alcuni continuavano a lavorare».
Un primo accordo sulla riforma elettorale sta spuntando: ma alle condizioni del Nuovo centrodestra, non di Silvio Berlusconi. E l’irritazione del leader di Forza Italia nei confronti di Matteo Renzi lascia capire che il presidente del Consiglio ha dovuto avallare la soluzione offerta dal suo alleato. Si cambia il sistema di voto solo alla Camera, come aveva chiesto fin da dicembre Gaetano Quagliariello, allora ministro per le Riforme e oggi segretario dell’Ndc. Di conseguenza, l’asse istituzionale tra Renzi e il Cavaliere regge, ma viene ridimensionato. D’altronde, una riforma fatta con FI contro un partito della coalizione poteva diventare destabilizzante. Il «grave disappunto» berlusconiano fotografa il ritorno alla realtà del capo del governo, attento a incassare un risultato.
Almeno nelle intenzioni, il compromesso, che dovrebbe essere ratificato alla Camera venerdì, scongiura per un anno le elezioni anticipate; e lega la fine della legislatura all’eliminazione di fatto del Senato. Renzi parla di «passo avanti». E liquida l’irritazione di FI. «Voglio far notare a Berlusconi e a tutti che stiamo realizzando ciò che ci eravamo impegnati a fare», rivendica il premier. «Le polemiche di queste ore non le capisco. Il fatto che il Senato abbia o non abbia una legge elettorale è ininfluente perché non si voterà più per eleggere i senatori».
È un modo per rintuzzare l’accusa di essersi piegato al «no» di alcuni settori del Pd e dal Ncd; e per non chiudere i rapporti con l’opposizione. Avere almeno alla Camera la riforma viene considerato una garanzia, qualora ci fosse un incidente di percorso e il governo precipitasse verso il voto anticipato.
La piazza filorussa di Donetsk lo ha capito subito ascoltando le prime parole del presidente Vladimir Putin. La controrivoluzione è rinviata. Il Palazzo del governo locale resta occupato, la bandiera di Mosca rimane sul pennone più alto, il grido è sempre lo stesso: «Rassia, Rassia». Insomma non si smobilita, non si lascia via libera «ai fascisti di Kiev».
Ora, però, bisogna aspettare, perché Putin si prepara al negoziato. Sul tavolo appoggerà non una pistola, bensì il Kalashnikov (carico) delle unità d’assalto schierate in Crimea. Questo è il messaggio che il leader russo ha inviato a Kiev e all’Occidente intero con una conferenza stampa convocata a sorpresa ieri nella sua residenza privata appena fuori Mosca.
Il numero uno del Cremlino ha toccato il picco di ambiguità. In mattinata faceva sapere di aver ordinato ai 90 Mig e agli 880 carri armati mobilitati alla frontiera est dell’Ucraina di tornare nelle basi entro il 7 marzo, interrompendo l’esercitazione militare straordinaria cominciata il 26 febbraio. In serata, invece, il ministero della Difesa annunciava che era stato eseguito con successo il lancio-test di un missile intercontinentale capace di trasportare testate nucleari a lunghissimo raggio.
La prima pagina di Repubblica: “Ucraina, la sfida di Putin al mondo”.
La Stampa: “Il nuovo patto per le riforme”.
Leggi anche: Massimo Gramellini, Buongiorno sulla Stampa: “E la Barracciu?”
Il Fatto Quotidiano: “Accordo Renzi-Alfano-Berlusconi. Vietato votare”.
Leggi anche: Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano: “La grande vuotezza”
Il Giornale: “E’ solo un renzino”. Editoriale di Salvatore Tramontano:
Renzi è partito promettendo la grande impresa, roba da leggenda, ma il primo passo è uno choc. E non nel senso che intendeva Renzi. C’è l’accordo sulla legge elettorale, ma vale solo per la Camera. Quanto vale allora questo compromesso? Il minimo sindacale. Le riforme non si fanno con i pareggi. Al momento sembra un mezzo Letta bis, una minestrina riscaldata, un Renzi che entra in campo con il braccino, spaurito e timoroso, spaventato dai ricattucci di Angelino o della minoranza sospirosa del Pd. La grande riforma renziana è latitante. È solo un renzino. È la giornata delle mezze vittorie. Renzi ottiene un punto, ma mostra di non saper governare il suo partito e la sua maggioranza. Alfano allunga i tempi di sopravvivenza del governo, la vera ragione sociale del Nuovo centrodestra, spera così di allontanare il voto e proteggere le poltrone, ma si becca comunque una legge elettorale non gradita, visto che lo sbarramento resta troppo alto e il premio di maggioranza non come lo sognava lui. È un compromesso anche per Berlusconi, che aveva firmato un patto per una riforma elettorale veloce e completa, e invece dovrà aspettare l’ipotetica revisione del Senato. Il clima per il leader di Forza Italia resta oltretutto quello di sempre, con i suoi nemici sempre pronti a bastonarlo.