Ma che lingua parlano gli alieni? Vittorio Zucconi su Repubblica

di redazione Blitz
Pubblicato il 27 Agosto 2014 - 07:55 OLTRE 6 MESI FA
Ma che lingua parlano gli alieni? Vittorio Zucconi su Repubblica

Spok col traduttore universale di Star Trek

ROMA – Ma che lingua parlano gli alieni? Se e quando forme di vita extraterrestre approderanno su questo pianeta saremo in grado di comunicare con loro? E’ il cruccio che assilla Vittorio Zucconi sul quotidiano la Repubblica. E non è il solo: in previsione del primo contatto intergalattico, che la Nasa ha ufficialmente stimato entro i prossimi 20 anni, antropologi, archeologi, linguisti, storici e teologi di tutto il mondo sono già all’opera per cercare superare l’incomunicabilità siderale. La ricerca, scrive Zucconi,

“ha prodotto uno studio voluminoso, approfondito e serissimo sui problemi che la comunicazione intergalattica porrebbe. Si chiama Antropologia, Archeologia e Comunicazione Interstellare e la conclusione non è incoraggiante. […]

[…] La prima, e la più spinosa, è il non sapere quali organi sensoriali i nostri visitatori celesti usino per comunicare fra di loro. Le famose cinque note della combinazione immaginata per gli Incontri ravvicinati del terzo tipo , sol-la-fa-fa (ottava sotto)—do funzionerebbe soltanto se gli Alieni avessero orecchie e percepissero frequenze come noi.

La placca d’oro incisa dall’astrofisico Carl Sagan e da sua moglie per la sonda Pioneer, con simboli matematici, sagome di maschio e femmina della specie umana, grafico del sistema solare presuppongono una capacità di visualizzazione simile alla nostra.

Lo studio, che la Nasa ha stampato e messo in vendita dopo aver languito in versione e-book ed essere ora stato scoperto, solleva, in un capitolo, un problema ancora più sottile dei possibili e probabilissimi strumenti biologici e psicologici dei viaggiatori interstellari.

Estrapolando dalla storia dell’umanità, non si può presumere che gli Alieni abbiano sviluppato, insieme con capacità tecnologiche a noi ancora inimmaginabili, una cultura planetaria, dunque una lingua o una civiltà uniforme. Non lo abbiamo fatto noi, perchè dovrebbero esserci riusciti loro?

Gli etnologi (terrestri) sono arrivati a calcolare in 6.909 il numero di lingue diverse parlate sul nostro pianeta, la maggior parte delle quali incomprensibili fra di loro. Quale fatica immensa sarebbe per l’Alieno imparare una di queste, se atterrassero fra gli Yanomami dell’Amazzonia o fra i Chukchi in Siberia, soltanto per scoprire che chi parla le altre 6.908 lingue non li capisce. Una “Stele di Rosetta” a uso intergalattico non è concepibile, neppure attraverso i linguaggi universali della matematica e della fisica che pure sono “parlati” da tutti i corpi celesti che rispondono alle stesse leggi.

Un esempio della difficoltà che i navigatori spaziali incontrerebbero sbarcando fra noi Taino e Arawak terricoli è visto nel rapporto fra gli uomini e gli animali. Pur convivendo da milioni di anni sulla terza roccia dal Sole, gli umani ancora non hanno imparato a parlare con le api, che seguono il linguaggio della luce, la semantica delle balene che si muovono nelle nostre acque, la comunicazione fra i nostri cugini primi, i primati, oltre a qualche rudimentale forma di dialogo.

“Seti”, il gigantesco concerto di antenne che in diversi Paesi ascoltano, dai primi anni ‘60, il brusio stellare giorno e notte sperando di cogliere sotto il rumore qualche segnale artificiale, non offre aiuto nel risolvere il dilemma che uno degli autori del lavoro, John Traphagan, studioso di religioni e di teologia, spinge ben oltre la questione del linguaggio o della traduzione:

«Una specie arrivata da distanze spazio temporali inconcepibili potrebbe anche capire le parole, ma avrebbe sicuramente un quadro di riferimento culturale radicalmente diverso dal nostro. Quello che noi intendiamo dire ha senso perché viene riferito all’esperienza comune dell’umanità, ma quale senso avrebbe per chi ha esperienze completamente diverse? Che cosa può essere il bene e il male per loro?».

Colombo e i nativi delle Bahamas, i Macedoni e gli Afghani, i Mongoli che galoppavano verso Occidente, erano comunque figli della stessa madre, mossi dagli stessi desideri, paure, ambizioni, bisogni. Ma che cosa avrebbe mosso quegli extraterrestri ad approdare fino a noi, è impossibile immaginare. I pessimisti ricordano un premiatissimo racconto di fantascienza scritto da Maria Doria Russel nel 1996, The Sparrow, il passero, dove un astronauta terrestre, un gesuita, viene attratto dalla musica incantevole che si sprigiona da un pianeta, soltanto per scoprire che essa canta deliziosamente gli orrori della schiavitù, dello stupro, della violenza.

In questi giorni della brutalità fondamentalista, dello sterminio etnico, della incomunicabilità anche soltanto fra israeliani e palestinesi cresciuti gomito a gomito, le possibilità di comunicare con specie venute dalle profondità dell’universo appaiano remote quanto remota è l’ipotesi del loro arrivo. E purtroppo non c’è neppure più il Mork di Robin Williams che potrebbe salutarli con il suo “Nanu Nanu”, ciao a tutti.