Mario Pirani non amava il politicamente corretto. Il ritratto di Simonetta Fiori

Mario Pirani, in una recente foto (riquadro) e nella foto grande primo a destra la notte in cui uscì Repubblica, con, da sin.Vittorio Ripa di Meana,Carlo Caracciolo, Eugenio Scalfari
Mario Pirani, in una recente foto (riquadro) e nella foto grande primo a destra la notte in cui uscì Repubblica, con, da sin.Vittorio Ripa di Meana,Carlo Caracciolo, Eugenio Scalfari

ROMA – Un austero, asciutto e completo profilo di Mario Pirani, morto a 89 anni a Roma, è stato scritto su Repubblica da Simonetta Fiori. Nel ricordare Mario Pirani, Eugenio Scalfari lo ha associato tra i cofondatori di Repubblica, anche se in realtà Repubblica di fondatori ne ha avuto uno solo, Scalfari, la cui civetteria arriva al punto di estendere la qualifica anche ai colleghi con i quali, nei mesi della preparazione del giornale, testava le sue idee.

Nell’articolo di Simonetta Fiori non manca quasi nulla, come si conviene a un elogio funebre. Una cosa è certa. Mario Pirani andava contro corrente e lo ha fatto fino alla fine, assumendo posizioni anche in contrasto col conformismo imperante nel suo stesso giornale, Repubblica: un caso esemplare è la vicenda dei due marò ostaggio della giustizia dell’India, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone per i quali Repubblica si è spesa certo molto meno che per i clandestini.

Ma era così anche negli anni ’70 e la sua coesistenza in Repubblica, fino alla direzione dell’Europeo, è una prova della grandezza del più giovane e cinico e meno irrigidito partiticamente Scalfari, capace di far convivere, in un giornale molto più a sinistra di oggi, personaggi come Pirani o Alberto Ronchey.

Simonetta Fiori, che definisce Mario Pirani “maestro laico”, ricorda che Mario Pirani “ha lavorato fino al mese scorso, preoccupandosi di non far mancare al giornale la sua rubrica del lunedì, Linea di confine . Anche quella meticolosità era un tratto del carattere che però, a dispetto della precisione, era tutt’altro che prevedibile. Alla soglia dei novant’anni se n’è andato ieri a Roma, dove era nato, un protagonista del giornalismo e della storia politica italiana, Mario Pirani, tra i fondatori di Repubblica e fino alla fine collaboratore di quella che considerava la «sua casa».

Imprevedibile la personalità di Mario Pirani perché mai tagliata con l’accetta, troppo ricca di complessità per essere schiacciata su un profilo univoco. Non a caso la splendida autobiografia Poteva andare peggio ( Mondadori) nel sottotitolo contiene un ossimoro — Mezzo secolo di ragionevoli illusioni — dove compare la razionalità illuministica che era un tratto della sua intelligenza ma anche l’indole visionaria di chi vuole cambiare il mondo. Un ottimismo della volontà che è andato incrinandosi negli ultimi decenni, lasciando spazio a un’analisi sempre più sconsolata e malinconica del suo Paese.

Figlio del secolo breve, gli sopravvisse senza mai rinunciare alla passione politica che era propria del Novecento. Classe 1925, come in tanti della sua generazione la vita personale fu punteggiata dagli avvenimenti della storia grande, fino a dar vita a un’avventurosa epica in cui è difficile separare privato e pubblico.
Anche Mario attraversò il ventennio nero, in parte — solo in parte — protetto dalle sue origini famigliari borghesi che gli garantirono rituali da jeunesse dorée. I suoi racconti delle vacanze al Lido di Venezia, negli anni Trenta, avevano il sapore di certe pagine di Thomas Mann, con quelle distese di spiagge esclusive segnate ancora dal privilegio di classe, maggiordomi soccorrevoli nello spostare i tendaggi per ombreggiare le dame, severe nannies al seguito di una prole elegante. Il padre era al vertice della società Cigam, proprietaria di alberghi di lusso in tutta Italia. Mario crebbe in un ambiente illuminato, al riparo dagli aspetti più rozzi e autarchici del regime. Il mito americano e le stelle del jazz. La Mostra del Cinema che faceva accorrere in laguna il meglio della cultura italiana. Anche per il bambino Pirani si trattò di un felice incantesimo, che tragicamente va in frantumi nel settembre del 1938. Il regime vara le leggi razziali, l’inizio di una lunga notte anche per la sua famiglia ebrea. Il fanciullo dorato diventa un adolescente braccato dalla furia del fascismo e del nazismo. Insieme alla madre, si nasconde in Abruzzo, mentre il padre riesce a scappare in Francia. Le fughe improvvise e i nascondigli provvisori l’avrebbero segnato nel profondo. E tracce di quelle sue ferite sarebbero riaffiorate in un’epoca più recente, in un’Italia contagiata da revisionismi e negazionismi a cui Pirani seppe reagire con fermezza, senza mai cedere alle distrazioni di un ceto colto compiacente.

Alla fine della guerra, per molti della sua generazione un rifugio sicuro fu rappresentato dal Pci e Mario aderì alla nuova fede senza riserve. «Bisognava non avere il senso del ridicolo per autodefinirci “rivoluzionari di professione”», annoterà nelle sue memorie. Quella professione fu presa molto sul serio, tutti «succubi di un nuovo credo globale che avrebbe giustificato ai nostri occhi ogni prevaricazione ». Dalla culla alla tomba, anche i sentimenti vengono controllati dal Partito che gli organizza il matrimonio a Venezia con una bella ragazza, Claudia, «che sembrava fatta apposta per condividere la vita di un militante ». Sono gli anni del Festival della Gioventù a Praga e di mille altre peripezie che rivelano un ragazzo con la vocazione del leader. Prima di diventare responsabile del rapporti con l’estero del gruppo giovanile, lavora al fianco di un ancor giovane Enrico Berlinguer. Non si stabilì mai tra loro una vera confidenza, anche perché Mario ha il terribile vizio di leggere i quotidiani prima del suo capo, che un giorno lo riprende: «Compagno Pirani, ti prego di non aprire i giornali prima di me. Mi piace leggerli ancora intonsi». Lui ci rimase male ma anni dopo, titolare di una sua personale mazzetta, avrebbe confessato la medesima insofferenza.
La sua fede nel comunismo comincia a incrinarsi nel 1948, con la condanna di Tito da parte de Cominform. Otto anni più tardi, nel 1956, i carri armati sovietici a Budapest alimentano la convinzione che non è più quello il suo posto. Ma la storia con il Pci finisce soltanto nel 1961, dopo un grottesco processo per una serie di articoli sul rapporto tra operai e partito usciti sull’ Unità. «Perché un iter così lento? Penso che le cause siano più di una e riflettano anche una certa prudenza caratteriale, che mi spinge a non procedere d’impulso, ma solo dopo aver misurato il rapporto tra l’agire emotivo e la valutazione razionale». Lo tratteneva la paura che l’uscita dal partito avrebbe rappresentato «la dismissione di un investimento emotivo» durato negli anni decisivi della formazione, anche l’abbandono di «una vera famiglia allargatissima, con i suoi porti-rifugio, le sue reti di solidarietà affettive, i suoi riferimenti culturali ».
Lungo e sofferto l’addio a Botteghe Oscure, che però non mette certo fine al suo ruolo nella scena politica. Complice Giorgio Ruffolo, il socialista riformista a cui sarebbe rimasto sempre legato, per lui comincia un capitolo dal sapore romanzesco che è quello dell’Eni: Enrico Mattei lo incarica di tenere le fila della diplomazia segreta con il governo clandestino dell’Algeria che sta conquistando l’indipendenza. Un periodo rocambolesco narrato nell’autobiografia nelle sue trame da spy story, in cui non manca la passione amorosa. «Da Lenin all’Eni», l’avrebbero bollato gli avversari, suscitando uno dei suoi frequenti sorrisi beffardi.
La scomparsa di Mattei segna la sua uscita dall’Eni e un nuovo inizio nel giornalismo, prima nel Giorno di Pietra, poi al Globo di Ghirelli, dove tra gli altri meriti ebbe quello di valorizzare molte giornaliste, fino a quel momento confinate nella «pagina della donna ». Curioso, imprevedibile, persuaso che davvero con il mestiere si possa raddrizzare il legno storto. Per una giovane giornalista in particolare il sentimento va oltre la professione: con Barbara Spinelli sarebbe stato un lungo sodalizio.
Nel 1976 comincia l’avventura a Repubblica: nella foto storica dei fondatori, scattata il 14 gennaio vicino alle rotative del giornale, figura al fianco di Scalfari: in giacca e cravatta, il pantalone con un leggero accenno di zampa d’elefante come vuole la moda di quegli anni. Dopo tre anni, abbandona il giornale per dirigere L’Europeo, poi un periodo alla Stampa.
Ma nell’86 ritorna in piazza Indipendenza.
Principe degli editorialisti, una robusta formazione economica oltre che una cultura raffinata, Pirani ha commentato per i successivi tre decenni i principali accadimenti della politica interna e internazionale. Sempre da combattente, soprattutto negli anni del connubio tra Berlusconi e destra postfascista. Ebreo profondamente laico, ha condannato con severità tutti i tentativi di cambiare il senso comune storico soprattutto sulle vicende di cui era stato testimone. Rigoroso e sempre molto documentato, detestava la cialtroneria e il pressapochismo. Alla manipolazione della storia dedicò anche il saggio Il fascino del nazismo/ il caso Jenninger. E le oltre quattrocento pagine dell’autobiografia, scritte grazie anche alle sollecitazioni della più giovane moglie Claudia Fellus, portano il segno di un’ostinata ricerca di una memoria costantemente minacciata.
I lettori di questo giornale hanno continuato a leggerlo nella rubrica Linea di confine. Il titolo della rubrica non fu scelto a caso. Ne restituiva il suo tratto eterodosso, poco amante del politically correct . E i temi trattati erano in bilico tra la cronaca e la microstoria, tra il sociale e l’ideale. Leggeva moltissime carte, per scrivere sessanta righe. «Potrei buttar giù un saggio», scherzava sullo sterminato materiale raccolto. Poi però scriveva due cartelle. Puntuale, meticoloso, fino all’ultimo”.

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