ROMA – Venerdì 12 dicembre il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare l’ennesimo decreto Ilva: non la nazionalizzazione, ma l’amministrazione straordinaria, secondo la legge Marzano come modificata per Alitalia, per aprire la strada, pareva ancora giovedì sera, ad ArcelorMittal con Emma Marcegaglia di rincalzo e lo Stato finanziatore. Uno schema che suscita perplessità. Ad alzare il velo su questo conflitto d’interessi allo stato nascente è Massimo Mucchetti (Pd), presidente della commissione Industria del Senato, che ha seguito fin dall’inizio la partita dell’Ilva.
L’intervista a Mucchetti del Fatto Quotidiano a firma di Marco Palombi.
Mucchetti, andiamo con ordine. Perché serve un decreto?
Per sciogliere i legami dell’Ilva del futuro con quella del passato. Oggi l’Ilva è commissariata in base al decreto sui siti di interesse nazionale; a differenza del predecessore Bondi, l’attuale commissario Piero Gnudi ha un mandato a vendere, ma i proprietari restano i Riva. Passando all’amministrazione straordinaria, i vecchi soci sono sterilizzati, avremo una vecchia Ilva in liquidazione e una nuova, di cui in prima battuta sarà azionista la vecchia.
Ma chi può chiedere l’applicazione della Marzano?
L’assemblea degli azionisti, e cioè i Riva, che possono non volerlo fare. Allora bisogna attribuire questo potere al commissario. Poi c’è il problema delle guarentigie.
Spieghi.
Il commissario Ilva e i suoi collaboratori non sono imputabili di reati ambientali per la durata dell’Aia (autorizzazione integrata ambientale). La Marzano, però, non prevede queste guarentigie e bisognerà provvedere.
Ma chi paga le bonifiche, circa 3 miliardi di euro?
L’Aia prevede interventi per 1,8 miliardi. Ma il punto vero, per chiunque voglia gestire l’Ilva del domani, Stato o privati, è la certezza del diritto. I nuovi gerenti non possono caricarsi sulle spalle le cause miliardarie intentate contro l’Ilva o temere un sequestro alla settimana. Diversamente, l’Ilva fallirà e nessun giudizio darà nulla a nessuno.
E quindi?
L’ex commissario Bondi aveva presentato un piano industriale che realizzava l’Aia, che è legge dello Stato. Ad ArcelorMittal sembrava troppo. Il governo dovrà parlare con la città di Taranto e trovare un compromesso sulle molte pendenze. Ma non potrà non partire dall’Aia. E da chi mette i soldi veri.
Che dice della Cassa depositi e prestiti o del suo Fondo strategico?
Per legge e statuti, il gruppo CDP non può assumere partecipazioni in società in perdita. Ma leggo che potrebbe metterli in Marcegaglia, gruppo ufficialmente non in perdita ma con uno stato patrimoniale assai tirato. Insomma, non un target imperdibile. Temo il conflitto d’interessi e un po’ di machiavellismo.
Il Fondo strategico non stava trattando l’ingresso nel gruppo Arvedi, anch’esso interessato all’Ilva?
Senza mai concludere. Arvedi è un concorrente: una fusione tra Arvedi e la nuova Ilva comporterebbe una ristrutturazione del settore degli acciai piani tutta da capire. L’Antitrust italiano potrebbe eccepire ancorché la dimensione del mercato siderurgico non sia nazionale ma europea.
Si ipotizza che i privati entrino nella nuova Ilva esercitando un’opzione call.
Un’ipotesi ancora generica, non giudicabile, ma ci starei comunque attento. Lo Stato i soldi li mette tutti e subito. Su quale valutazione entrerebbero i privati? L’Ilva adesso vale zero; con i denari dello Stato potrà valere più o meno quei soldi; tra tre o quattro anni, a risanamento avvenuto, l’Ilva andrà a 4-5 miliardi. Fabbriche così nel cuore del Mediterraneo non se ne faranno mai più.
E allora?
L’opzione di acquisto a termine ha senso se chi la riceve già oggi impegna un capitale proporzionato a quello messo dallo Stato, dall’Ilva in liquidazione ed eventualmente dalle banche, e domani condividerà un “earn out”. Diversamente, i privati gestirebbero e gli altri, Stato in primis, si terrebbero il rischio (…)