ROMA – “Curiosi a caccia solo dell’autografo di Ricky Memphis e coatti in tuta Adidas di passaggio, cinefili sinceramente addolorati dalla totale assenza di glamour e preti con biglietti omaggio, mamme scollacciate, avvocati con l’amante, commesse con lo spritz, portaborse che hanno preso il posto dei politici (solo Gianni Letta, laggiù, a capo chino) e bambini felici perché, davvero, sembra di stare al circo”.
Così Fabrizio Roncone ha descritto sul Corriere della Sera l’apertura del Festival del cinema di Roma,
“idea di Walter Veltroni e Goffredo Bettini”
un po’ megalomane ma che piaceva tanto al sindaco perito cinematografico.
L’idea iniziale
“era quella di dare a Roma una Festa del cinema e non un Festival. Portarono Leonardo Di Caprio a Tor Bella Monaca, tra i palazzoni grigi della periferia, e Jane Fonda a Frascati. Ma lasciarono pure Tom Cruise a firmare autografi per un’ora filata, organizzarono una memorabile cena in onore di Francis Ford Coppola sulla terrazza Caffarelli e Robert Redford fu mandato a passeggiare in piazza di Spagna (e dopo di lui, andando un po’ a memoria, giunsero anche Penn, Connery, Scorsese, la Kidman: insomma, il meglio del cinema mondiale). Era una magnifica scommessa: non avendo la tradizione del Lido e lo charme de la Croisette, tanto valeva giocare con la grandiosità di Roma. Non un evento per pochi (critici, esperti, appassionati), ma di popolo.
“Poi però al Campidoglio fece tappa Gianni Alemanno, e decise di cambiare. Propose che a dirigere tutto fosse messo Pasquale Squitieri (ma gli spiegarono che non era il caso), trovò spesso sponda con il presidente della Regione dell’epoca, Renata Polverini (già alle prese con il caso quasi cinematografico di Francone Fiorito detto Batman, il capogruppo del Pdl poi arrestato).
“Tra minacce politiche, spallate, colpi di mano, si decise che la Festa dovesse diventare Festival. Il leggendario presidente Gian Luigi Rondi e la bravissima direttrice artistica Piera Detassis furono sostituiti da Paolo Ferrari e Marco Müller. Quest’ultimo si presentò annunciando robe pazzesche (i divi più divi, prime internazionali, prestigio assoluto e definitivo).
Adesso è lì, Müller, che cammina a passi lenti, con su un sorriso fisso, da circostanza. A certe botte di radicalismo orientale della passata edizione(per questo pubblico, tra l’incomprensibile e il comico) ha dovuto rinunciare; in compenso il Festival internazionale apre con una commedia di Giovanni Veronesi. Dietro Müller, sul red carpet, ecco Valeria Marini (dalla folla: «Vié quà, Valeriò, viè da zio… fatte da’ un bacetto !»). Poi Domenico Procacci e Kasia Smutniak, Elio Germano, Elisa, Antonello Venditti (folla in delirio), Alessandro Haber, Leonardo Pieraccioni, la pierre preferita dal generone romano, una ex parrucchiera di Cinecittà, una bionda che si avvicina ai microfoni barcollante e con alito di alcol (cameramam: «Aho’! Ma chi sei? E annamo, daje, scanzate, facce lavorà »).
“Alle 19, il red carpet è vuoto. Chi aveva i biglietti è in sala, a vedere L’ultima ruota del carro . Gli altri, o a prendere un aperitivo o sotto il furgone di Umberto, dove preparano squisiti panini con la porchetta. «Squisiti? No, scusi, de più: ‘sta porchetta te se scioglie in bocca… »”.
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