Rosaria Iardino a Repubblica: “Noi, i sopravvissuti dell’Aids”

aidsROMA – Rosaria Iardino dimostrò all’Italia terrorizzata (e razzista) che l’Hiv non si trasmetteva né con la saliva, né tantomeno con una stretta di mano.

Scrive Maria Novella De Luca su Repubblica:

Oggi a 47 anni, sieropositiva da quando ne aveva 18, Rosaria è diventata mamma di una bellissima bambina di nome Anita, ed è insieme ad altri centocinquantamila italiani, una “long survivor”, una sopravvissuta. Convive cioè da decenni con la malattia tenendo sotto controllo il virus, grazie ad un cocktail di farmaci che hanno cambiato per sempre il destino delle persone sieropositive. Espulsa a 22 anni dal ristorante dove lavorava come maitre a causa della sua malattia, Rosaria Iardino, oggi consigliere comunale del Pd a Milano, ha spesso raccontato quanto fossero forti le discriminazioni negli anni in cui l’Aids veniva considerato la “peste bianca”, che si diffondeva attraverso sangue e rapporti sessuali.

«Nel 1986 i medici mi dissero che sarei morta entro un anno… Invece ero forte, e ce l’ho fatta a sopravvivere fino a quando nel 1996 sono arrivati gli antiretrovirali, farmaci che hanno cambiato l’esistenza di tutti noi. Oggi se ti curi puoi guardare al di là della malattia, lavorare, fare progetti. Sono diventata insieme alla mia compagna mamma di Anita, la gravidanza l’ha fatta lei, io ero un po’ troppo grande… Certo non è facile dipendere dai farmaci, il fegato si affatica, ma l’alternativa è ammalarsi. E a me la vita piace. Ma il vero problema oggi è che di Aids non si parla più». Rosaria, Margherita, Paolo, Alessandro. Come soldati scampati ad una guerra dove sul campo sono rimasti amici, compagni, mogli, fidanzati, oggi sono loro, isurvivors, a fare informazione nelle scuole, nelle carceri.

Il paradosso della sopravvivenza è proprio questo. Alla vigilia della giornata mondiale contro l’Aids, in Italia si contano quattromila nuove infezioni l’anno, una speranza di vita sempre più lunga, ma anche un muro di silenzio che ormai circonda l’Hiv. «Questo silenzio — aggiunge Stefano Vella, infettivologo, uno dei più importanti esperti di Aids del nostro paese — sta portando a conseguenze gravi. Il serbatoio del contagio non diminuisce, aumenta il numero dei sieropositivi, i giovani ignorano il preservativo, nessuno fa più il test. Chi contrae il virus scopre la propria condizione dopo anni, con il rischio di aver infettato chissà quante altre persone. Di Aids non si muore quasi più, è ormai una malattia cronica, ma è una malattia globale, il maggior centro di contagio, Africa a parte, è nei paesi dell’Est, nel cuore dell’Europa, alle porte dell’Italia. Non possiamo abbassare la guardia» (…)

Era il 1989 quando il ministero della Sanità lanciò la martellante campagna “Aids, se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide”. Poi il silenzio. Ferdinando Aiuti, infettivologo e immunologo è la memoria storica della lotta all’Aids in Italia. «Erano anni tremendi. Morivano tutti. Il primo paziente infetto arrivò nel mio istituto nel 1983. Eravamo in trincea. C’era uno spaventoso stigma sociale: i sieropositivi facevano paura, per questo baciai Rosaria. I dentisti si rifiutavano di curarli, i colleghi medici pretendevano camere operatorie separate, la gente licenziata, i bambini espulsi dalle scuole. La cosa più dura era veder morire i bambini. Se pensiamo che oggi di neonati positivi non ne nascono più, che ho pazienti in vita infettati addirittura nell’87, è evidente la rivoluzioneportata dai farmaci. Ma sopravvivere non vuol dire che abbiamo vinto. Si deve tornare al test di massa, soltanto così fermeremo il virus». Margherita Errico, napoletana, ha 35 anni, è presidente di “Nps” Italia, il network di persone sieropositive. Aveva 15 anni quando viene contagiata dal suo fidanzato. «Un’estate, nel ‘93. Lui era uscito dalla comunità, era un soggetto a rischio, ma io ero innamorata. Sì, usavamo il preservativo, ma la mia famiglia non approvava quella relazione, ci nascondevamo, e deve essere accaduto così, per un errore, una leggerezza» (…)

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