ROMA – “Il sancta santorum di Salvini – scrive Rodolfo Sala di Repubblica – al primo piano del fortino di via Bellerio, offre un compendio del suo mondo. Diversissimo da quelli dei due predecessori, Bossi e Maroni. Non è un caso, la discontinuità impone anche riti stilistici, e in quelli il Matteo della Lega si immerge quasi con golosità”.
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La sua stanza da segretario è un patchwork. Grandi fotografie, Salvini con la maglia rossonera abbracciato a Franco Baresi, e poi quelle dei suoi due figli, Federico e Mirta; la felpa di quando — sì, anche lui — faceva il boy scout, «ma i miei scout erano laici», la medaglia d’oro che l’Avis consegna ai più assidui donatori di sangue, la targa regalagli da Putin (riproduce la Duma), quella della onlus “Cancro primo aiuto” di cui Salvini è vicepresidente, la bandiera del Tibet, quattro caschi che arrivano dalla Valcamonica, cadeau degli operai delle acciaierie Riva, il Tapiro recapitato da quelli di Striscia…
«Questo sono io», sorride compiaciuto il segretario, reduce da una delle sempre più frequenti trasferte romane e in procinto di partire per un weekend elettorale in Emilia, dove a primavera si vota. Salvini annuncia, per oggi, un blitz al campo rom di Bologna. «Una provocazione pericolosa che rischia di generare gravi tensioni», alza gli scudi il Pd. Lui se la ride, ha già calcolato l’effetto mediatico della visita ed è certo che anche grazie a queste “salvinate” la Lega salirà ancora di più nei sondaggi. «Il nostro capitano», lo chiamano i fan adoranti alimentando un culto della personalità che al confronto quello per Bossi era niente, per non dire di Maroni, che in quanto a carisma non ha mai brillato. Al «Matteo giusto», da non confondere con quello di Palazzo Chigi, un certo carisma non sembra mancare. Ma lui è molto attento, forse più di quanto sia lecito a un segretario di partito, a circondarsi di fedelissimi da piazzare nei posti giusti. Nell’inner circle salviniano spicca la filiera dei Giovani Padani, ormai quasi tutti coetanei del quarantunenne segretario. Come il comasco Eugenio Zoffili, l’inventore delle scope verdi ai tempi ingloriosi di Belsito: lavora in Regione Lombardia, ma presto sarà nominato capo di gabinetto di Salvini. Poi ci sono i milanesi Stefano Bolognini, ex assessore in Provincia, Alessandro Morelli, capogruppo a Palazzo Marino, e Alessandro Pansa, ora fisso in via Bellerio. Quindi il brianzolo Massimiliano Romeo, capogruppo al Pirellone, il bergamasco Lucio Brignoli, cui è stato trovato un posto in Regione, i deputati Stefano Borghesi (Brescia) e Paolo Grimoldi (Monza). Fedelissimi anche i capigruppo: al Senato Gian Marco Centinaio da Pavia e alla Camera Massimiliano Fedriga da Trieste. Superfedelissimo, ai limiti dell’adorazione, il mantovano Luca Morisi, elevato dal “capitano” a responsabile per i social network. Poche le donne, ma nel cerchio stretto c’è un’emergente: la bergamasca Claudia Terzi, assessore con Maroni, appena nominata responsabile per l’Ambiente nella Lega e neopromossa ai talk politici in tv.
Salvini non ha un padre nobile, come lo era Miglio, ma un forte punto di riferimento sì: Giancarlo Giorgetti, prodigo di ascoltatissimi consigli. Una new entry il responsabile della economia nella Lega: Claudio Borghi Aquilini, economista antieuro che si era presentato, senza successo, alle elezioni europee. Nel Veneto coltiva rapporti strettissimi con Luca Zaia, ma non con il moderato Flavio Tosi. E per via della svolta lepenista è tutto pappa e ciccia con Mario Borghezio, che alle europee è riuscito a farsi eleggere nella circoscrizione centrale, anche con l’aiutino di Casa Pound. La strategia dell’espansione verso il Sud sta però subendo una battuta d’arresto. Intanto è in discussione il nome della “Cosa” che da Roma in giù dovrebbe affiancare il Carroccio: Lega dei popoli non va bene, «ci vuole qualcosa di diverso che dia l’idea dell’allargamento», dice Salvini. E poi l’operazione, affidata al parlamentare Raffaele Volpi, rischia di ridursi a una campagna acquisti le cui prede sono espo- nenti della vecchia politica. Come Silvano Moffa, già presidente della Provincia di Roma e sodale di Fini, ora folgorato dal neoleghismo incarnato dal quasi apostata Matteo.
Sì, perché Salvini non ci sta a farsi rinchiudere negli schemi a cui vien da pensare a causa della sua oratoria a tratti becera. E allora ecco le sparigliate (a proposito, Salvini ama giocare a carte, e non disdegna tavoli con amici di sinistra). Come la nomina del nero Toni Iwobi, nigeriano da decenni in Italia, a responsabile immigrazione. Ma lo spariglio vero è il feeling che da qualche tempo unisce Salvini a Maurizio Landini. I due si sentono, si scambiano messaggi quasi quotidiani. E non passa giorno che il leader leghista non si produca in pubblici apprezzamenti per i «bravissimi» sindacalisti della Fiom. Soprattutto da quando Landini ha annunciato che il suo sindacato darà l’indicazione di votare Sì al referendum abrogativo della legge Fornero, promosso dalla Lega. Lo strano feeling con la Fiom non ha impedito a Salvini di incontrare, qualche mese fa a Milano, un imprenditore falco come il patròn di Esselunga Bernardo Caprotti. Già, c’è proprio di tutto nel magico mondo di Matteo. Quello «giusto», beninteso: diverso ma speculare all’altro.