ROMA – Marco Travaglio si spiega con certezza perché nessuno si accorse delle ruberie che, secondo la Procura della Repubblica di Milano, sono state compiute nelle grandi opere della Regione Lombardia: non hanno funzionato i controlli, nonostante Roberto Formigoni, allora presidente della Regione, avesse istituito, nel 2009, un “Comitato per la legalità e la trasparenza delle procedure regionali”, di cui facevano parte il prefetto ed ex generale Mario Mori, già comandante del Ros dei Carabinieri e direttore del Sisde, e l’ex colonnello Giuseppe De Donno, già braccio destro di Mori al Ros, poi suo capo di gabinetto al servizio segreto civile, ora amministratore delegato di una società di sicurezza privata, la G-Risk.
Roberto Formigoni, ricorda ora Marco Travaglio, li definì con queste parole:
“Si tratta di personalità di rilievo nazionale, servitori dello Stato che hanno accettato di affiancare la Regione nel grande processo di modernizzazione, anche in vista di Expo2015. Sono due i doveri che sento di avere: procedere a tappe forzate nell’opera di modernizzazione, realizzando tutte le infrastrutture necessarie, e al contempo fare in modo che questa opera avvenga in assoluta trasparenza e che siano premiati gli imprenditori e il lavoro onesti. Non voglio che la criminalità s’insinui”.
Ora, cinque anni dopo, l’amara conclusione di Marco Travaglio è che
“si può dire con orgoglio che i risultati sono arrivati: 8 arresti per associazione per delinquere, truffa, turbativa d’asta e falso, fra cui quelli del direttore generale di Infrastrutture Lombarde (la holding regionale che gestisce grandi opere per 11 miliardi) e del responsabile delle gare e appalti; e 29 indagati, fra cui – guarda guarda- De Donno. Cioè: colui che già il primo giorno di lavoro sottolineava “la positiva collaborazione tra magistratura e Pubblica Amministrazione”e veniva esaltato dal Celeste Governatore come perno irrinunciabile del “rafforzamento dei presìdi di legalità all’interno del sistema”, è lui stesso inquisitoper alcuni appalti e incarichi vinti con gare truccate, tra cui uno da 140 mila euro per la “rilevazione del rischio ambientale” sull’autostrada Milano-Brescia“.
Missione compiuta. Conosciamo l’obiezione: ma chi poteva mai immaginare che un ex colonnello del Ros ed ex dirigente del Sismi, anziché combattere l’illegalità, l’avrebbe praticata (come è sospettato di aver fatto dai pm e dal gip)?
La risposta è nel curriculum di De Donno, l’ufficiale dei carabinieri che a fine maggio del ‘92, una settimana dopo la strage di Capaci, mentre i rappresentanti dello Stato lacrimavano ai funerali di Falcone a favore di telecamera e dichiaravano guerra senza quartiere a Cosa Nostra, avvicinava Massimo Ciancimino (conosciuto anni prima per un’indagine) perché mettesse una parola buona con il padre Vito, mafioso corleonese e politico democristiano, già sindaco e assessore ai Lavori Pubblici di Palermo, arrestato e fatto condannare da Falcone e Borsellino, in quel momento agli arresti domiciliari per scontare la pena definitiva.
La proposta indecente del Ros a don Vito era quella di avviare, tramite lui, una “trattativa” (parole di De Donno e Mori, costretti ad ammettere l’immondo negoziato dopo che lo rivelò Giovanni Brusca nel 1996) con i vertici di Cosa Nostra che avevano appena assassinato Falcone, la moglie e gli uomini della scorta. Trattativa che iniziò a metà giugno con il primo incontro De Donno-Ciancimino senior, e proseguì con molti altri, anche con Mori, anche dopo la strage di via D’Amelio che eliminò Borsellino, ostile alla trattativa e impegnato a bloccarla con le sue indagini.
Ragion per cui sia Mori sia De Donno sono imputati aPalermo per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato.
Ora qualcuno domanderà: ma era proprio il caso di nominare […] nel Comitato Legalità e Trasparenza per gli appalti lombardi due ex ufficiali che, pagati per combattere i mafiosi, nel ‘92 non trovarono di meglio che trattare con i mafiosi? Non è come mettere le volpi a guardia del pollaio? “
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