ROMA – Luigi Zingales e l’agenda Monti. Un match in due tempi giocatosi sulle pagine del Sole 24 Ore, quello fra il premier uscente e l’economista nato a Padova 49 anni fa, laureatosi alla Bocconi, professore a Chicago e ideologo di “Fermare il declino”, movimento politico liberista fondato da Oscar Giannino. Il primo atto è il 22 dicembre: è il giorno delle dimissioni di Monti e Zingales firma un editoriale dal titolo “I dieci comandamenti montiani”:
È dai tempi in cui il popolo ebraico, ai piedi del monte Sinai, ricevette da Mosè i dieci comandamenti che l’attesa di un decalogo non è cosi carica di ansia ed incertezza . Una grande fetta dei politici italiani attende il decalogo Monti ed il suo Mosè, che conduca loro verso la terra promessa, dove il Pil cresce al ritmo del 3% l’anno, lo spread è di 30 punti base, e i politici vengono rieletti senza tanti patemi d’animo. Ma quali saranno i dieci comandamenti montiani?
Se dobbiamo cercare di indovinarle dall’esperienza di un anno di governo del professore, le indicazioni sono chiare. Un europeismo spinto al punto di una totale identificazione con (sottomissione a) l’agenda Merkel. Un rigore di bilancio fatto di aumenti di imposte, non di riduzioni delle spese. Qualche liberalizzazione e deregolamentazione cosmetica da sfoggiare nei meeting internazionali. Una totale difesa della classe dirigente e politica attuale. Una prospettiva eccitante solo per Fini, Casini, e pochi altri.
Questa previsione è sicuramente ingiusta. Durante quest’anno di governo Monti è stato fortemente limitato nella sua azione dalla coalizione che lo sosteneva. Ora non più. Finalmente Monti può tracciare la sua agenda ideale, libero da questi vincoli. Per cercare di capire quale potrebbe essere questa agenda basta guardare al Monti professore e al Monti Commissario Europeo. Da professore Monti è sempre stato un liberista, più vicino ai neoclassici supply sider che ai keynesiani. L’agenda del Monti professore non potrebbe che essere fatta di tagli di imposte, soprattutto sul lavoro e sull’impresa. Ma siccome il Monti professore è stato sempre molto critico dei deficit di bilancio, oltre ai tagli fiscali la sua agenda conterrebbe uguali tagli della spesa pubblica. Questa agenda comprenderebbe anche la privatizzazione delle imprese statali e municipali, la liberalizzazione delle professioni e dei servizi (e non solo dei taxi), il taglio dei sussidi alle imprese (come suggeriti dal suo collega Giavazzi). Il Monti liberale che crede nella flessibilità del mercato sosterrebbe l’abbandono della contrattazione salariale nazionale a favore della contrattazione aziendale. Per finire il Monti professore ha sempre prediletto l’uso dei meccanismi di mercato laddove possibile, perché eliminano i sussidi impliciti e le posizioni di rendita. L’agenda del Monti professore dovrebbe quindi prevedere aste competitive per le concessioni statali, siano esse delle spiagge, dei treni, o delle reti televisive.
Da commissario Monti è stato un “trust buster“, un nemico degli oligopoli ed un rigoroso censore dei sussidi statali alle imprese mascherati sotto forma di garanzie (esplicite o implicite) sui prestiti da parte dello stato (vedi il suo intervento sulle Landesbank tedesche). L’agenda del Monti commissario non potrebbe quindi che contenere una guerra spietata ai grandi oligopoli nazionali, dalle assicurazioni alle banche, e agli intrecci azionari tra fondazioni, banche ed imprese. L’agenda del Monti commissario europeo infine dovrebbe contenere anche un forte ridimensionamento del ruolo della Cassa depositi e prestiti, che oggi gode proprio di quei sussidi impliciti tanto odiati dal professore.
Ma come riceverebbe il Grande Centro questa agenda? Potrebbero Fini e Casini, che sono vissuti politicamente sulla spesa pubblica al Sud, sostenere questa agenda?
Il secondo tempo si è disputato oggi, 27 dicembre. L’agenda Monti è stata pubblicata online e Zingales scrive un editoriale ancora più critico del primo: “Sulla crescita solo princìpi senza proposte”. L’economista accusa il professore di essere vago nei punti di un eventuale programma di governo, lo punzecchia paragonando la sua agenda a quella molto simile – e allora appoggiata dallo stesso Monti – proposta da Berlusconi nel 1994, Berlusconi che tra l’altro aveva gli stessi alleati, Fini e Casini, e che proprio per gli alleati, oltre che per la natura padronale del suo partito, non riuscì a mettere in pratica quanto aveva promesso.
Zingales ammonisce Monti: non si può riformare l’Italia senza cambiare la classe dirigente che l’ha portata fino a questo punto. Il problema secondo Zingales è – oltre all’inconsistenza del programma di Monti – l’alleanza con Udc e Fli che farebbe perdere credibilità a una lista Monti. Che stia proponendo “Fermare il declino” come unico partner affidabile per un progetto politico montiano?
E l’agenda Monti si fece carne. Con qualche ora di anticipo sul Santo Natale, la buona novella centrista è apparsa sul Web: 24 pagine di linee programmatiche, divise in quattro capitoli: Europa, Crescita, Welfare, e un interessante “Cambiare mentalità e comportamenti.” A grandi linee le proposte sono assolutamente condivisibili e in alcuni casi, come quello della scuola, addirittura rivoluzionarie per l’Italia. Ma l’agenda è priva di numeri e di dettagli. Più che un programma economico di rilancio, è un manifesto politico, che rigetta le posizioni delle estreme (Berlusconi e Vendola), per ritagliarsi un grande spazio al centro.
[…] Ma soprattutto ci si dimentica che un cambiamento di mentalità e comportamenti deve cominciare con un cambiamento di uomini. Questo ricambio non è sufficiente, ma è necessario. Ed questo è il vero buco dell’agenda Monti: proposte concrete per un ricambio delle classe politica e dirigenziale. Monti pensa che la sua ambiziosa agenda possa essere implementabile con quella stessa classe politica e dirigente che ha portato al fallimento la Seconda Repubblica? Al di là delle differenze lessicali (salita in politica, invece che discesa in campo), la manovra di Monti ricorda molto quella di Berlusconi nel 1994.
Anche il Berlusconi del ’94 aveva una agenda liberale, agenda che aveva ricevuto il plauso dello stesso Monti. Aveva perfino gli stessi alleati: Fini e Casini. Perché Monti dovrebbe riuscire laddove Berlusconi ha fallito? Se pensiamo che la colpa del fallimento sia solo di Berlusconi, allora forse la salita in politica di Monti è destinata ad avere effetti migliori. Io invece ritengo che il fallimento di Berlusconi sia dovuto a tre motivi. Innanzitutto, la struttura padronale del suo partito, fatto di stipendiati, che non rappresentano un’idea, ma operano nell’interesse del datore di lavoro, qualunque esso sia. Secondo, conflitti di interesse insanabili, che, in un partito padronale, trasformano il partito in una gigantesca organizzazione di lobby. Terzo, il desiderio di vincere a tutti i costi, anche ai costi degli stessi principi per cui si vuole vincere, che ha spinto Berlusconi ad allearsi con cani e porci.
Se Monti vuole riuscire dove Berlusconi ha fallito deve evitare gli errori commessi dal suo predecessore. Deve costruire un partito che si differenzi dall’Udc ma anche da Italia Futura, che è un partito padronale, come lo era a suo tempo Forza Italia. Deve ridimensionare il ruolo di chi è portatore di conflitti di interesse. Ma soprattutto deve imporre che i suoi candidati siano persone nuove, non membri di quella casse politica che ha fallito. […] Non si può parlare credibilmente di trasparenza dei finanziamenti ai partiti, con chi non ha oggi la massima trasparenza sui suoi finanziamenti. Non si può parlare credibilmente di regolamentazione delle lobby e dei conflitti di interesse, con chi organizza un partito personale ed è portatore di conflitti di interesse. Non si può parlare credibilmente di etica della politica con chi ha portato in parlamento Totò Cuffaro e Saverio Romano.
Pur con tutti i suoi limiti l’agenda Monti è troppo importante per essere lasciata in mano a questi Montiani, perché dopo il tradimento di Berlusconi la cosa peggiore per gli italiani non sarebbe la sconfitta dell’agenda Monti, ma un suo ulteriore tradimento. Se un’altra volta l’agenda liberale viene usata come foglia di fico per difendere gli interessi di pochi, a soffrirne non sarebbe solo l’economia del nostro Paese, ma la sua stessa democrazia.