ROMA – Totti ha il microfono in una mano, due fogli di carta nell’altra. La figlia più piccola gioca ai suoi piedi al centro del campo e Totti gioca con lei mentre stringe microfono e fogli di carta. La scena è lenta, quasi ferma. Ma nessuno dei centomila allo stadio e dei milioni in televisione ha nemmeno un briciolo di fretta. Che duri il più a lungo possibile questo che non è un semplice saluto di un campione di calcio ai suoi tifosi, che duri quanto vuole questa che è una comunione umana dal livello, qualità e intensità del tutto impreviste.
Da forse mezz’ora Totti a passa lento, spesso inchinandosi, è sulla pista di atletica dello stadio Olimpico e sta salutando quasi uno ad uno quelli che sono sulle tribune, sulle curve, quelli che sono ovunque, tutti quelli che ci sono. Da quasi mezz’ora Totti riceve omaggio e omaggia, da quasi mezz’ora all’Olimpico di Roma si piange. Piange Totti, lacrime vere, verissime. E non c’è uomo, donna, bambino, anziano o giovane in tutto lo stadio e anche a casa che non avverta un groppo alla gola, quello che prepara e chiama le lacrime.
Tra poco, con chiarezza e lucidità inaspettata, ce lo spiegherà Totti perché tutti si stia piangendo o quasi. Non proprio perché un grande calciatore smette di giocare, no, non proprio pere questo. Si piange perché ciascuno accarezza e coccola e bagna di qualche lacrima di melanconia gli ultimi 25/30 della propria vita e che di anni ne ha di meno in questa sera romana forse per la prima volta avverte cosa sia il connubio tra tempo e identità personale, come l’uno forgi l’altro e viceversa.
Tutto questo non lo sappiamo ancora, sta per dircelo Totti e dire che nessun ruolo o precedente o autorevolezza culturale di Totti stesso lasciavano presagire fosse possibile. E invece Totti comincia a passeggiare, passi lenti e decisi, passi teatrali nel rettangolo che disegna al centro del campo la sua maglia numero 10. E prima di leggere la lettera parla senza leggere: “Ecco, siamo arrivati…ero un bambino…sono diventato un uomo…mi dicono che sono diventato un uomo, me lo dice il tempo, maledetto il tempo…”.
Quindi la lettera in cui Totti trova le parole, il ritmo, il senso e la musica per dire ciò che tutti intendono anche se non l’hanno vissuto e che tutti o quasi prima o poi vivranno. Quello che accade nella testa e nell’anima e nel cuore e nelle viscere e nel cervello di un uomo o donna quando una parte della tua vita si conclude. Quando lasci un luogo di lavoro e un lavoro che ti è stato cario, che è stata la tua vita. Quando lasci una casa o una città che ti sono state pelle attaccata addosso. Quando lasci un’età, una donna, un uomo, una stagione della vita.
Quel giorno piangi, come un bambino anche se sei un uomo. E Totti mentre legge la lettera scritta per la sua gente e per la sua città non è già più solo il calciatore che smette di giocare è un magnifico interprete di una profonda emozione umana. Totti a Roma scrive: “Ora ho paura, aiutami”. Uno striscione, scritto e pensato forse da Roma stessa incarnata per l’occasione in un romano arguto, risponde: “Pensavo di morire prima”. Roma eterna pensava l’iperbole di finire prima che Totti finisse di giocare, a Roma nella notte di Totti si piange sorridendo.