Destra anomala critica Davigo perché allergica alla legalità

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 22 Aprile 2016 - 04:15 OLTRE 6 MESI FA
Destra anomala critica Davigo perché allergica alla legalità

Destra anomala critica Davigo perché allergica alla legalità

ROMA – Salvatore Sfrecola ha scritto questo articolo dal titolo “La destra anomala che critica Davigo perché allergica alla legalità” anche sul suo blog Un Sogno Italiano:

“Davigo, la toga che vede solo colpevoli”, così Stefano Zurlo accoglie su Il Giornale del 18 aprile la nomina a Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati di Piercamillo Davigo, avvenuta pochi giorni prima. Ed ecco l’incipit dell’articolo “da mani pulite in poi il presidente dell’ANM ha un unico credo: non esistono innocenti, solo colpevoli da incastrare a tutti i costi”. Viene spontaneo chiudere il giornale gettarlo nel cestino tanto è evidente la somma dei preconcetti che muovono in questo caso l’autore, un giornalista di valore evidentemente condizionato dall’ambiente nel quale lavora, dal clima culturale del giornale per il quale scrive. Una testata “di destra”, da sempre lividamente ostile alla magistratura alla quale si attribuiscono le peggiori ignominie, forse perché spesso sono stati imputati e condannati politici e imprenditori o politici-imprenditori vicini alla proprietà.

Per carità, ogni posizione ideologica è legittima, ma richiederebbe un minimo di serenità di giudizio, se non altro distinguendo i fatti dalle opinioni, antica regola del buon giornalismo. Invece il giornale indulge all’arroganza di certa imprenditoria italiana vicina al potere politico, all’ombra del quale da sempre prospera attendendo dalle forze politiche di governo non solamente concessioni e appalti ma, quando occorre, anche leggi e leggine che rendano più difficili le indagini giudiziarie, depenalizzano (sintomatiche le vicende del falso in bilancio) o abbassano la soglia della prescrizione. Ambienti lontani da quel culto della legalità che ha sempre caratterizzato la democrazia liberale, quella che chiamiamo destra e che abbiamo riconosciuto come tale fino a quando non se ne è impossessato un abile imprenditore, astuto comunicatore che, avendo avuto il merito di spazzare via nel 1994 e nel 2001 i residui di un comunismo becero e antistorico ha conquistato il cuore di molti italiani i quali sentimentalmente continuano, anche se sempre in numero minore, a votarlo per riconoscenza.

Ma torniamo alla prosa di Zurlo su Davigo del quale estrapola qua e là frasi tratte da contesti diversi dalle, quali vorrebbe dedurre il modo di intendere il ruolo di magistrato del presidente dell’ANM. Come quella secondo la quale “in Italia non ci sono troppi detenuti, ma troppe poche carceri”, una realtà oggettiva, perché il numero dei nostri detenuti è nella media degli altri paesi occidentali e se l’Italia è stata oggetto di censure sotto il profilo delle condizioni di vita negli stabilimenti carcerari è stato esclusivamente per l’affollamento degli stabilimenti di detenzione. Iniziare con questa frase dimostra faziosità pressappochismo preconcetti che non vanno mai bene ma ancor meno bene quando si parla di giustizia e di persone che nel settore sono impegnate con “disciplina e d’onore”, come si legge nell’articolo 54 della Costituzione laddove è indicata la regola cui devono attenersi coloro cui sono affidate funzioni pubbliche.

Basti pensare che Zurlo ritiene “perfettamente calzante sul Davigo-pensiero” una frase che riconosce non essere stata da lui mai detta “rivolteremo l’Italia come un calzino”.

Il fatto è che Pier Camillo Davigo, oltre ad essere un magistrato di valore, coerente nell’esercizio delle sue funzioni, prima di pubblico ministero e poi di giudice, col sistema normativo che è tenuto ad applicare, è anche un uomo di spirito, dalla battuta facile, che condisce i suoi ragionamenti con esempi tratti dall’esperienza sua e dei colleghi, attraverso i quali illustra in modo chiarissimo le origini e gli effetti del malaffare che attanaglia questa nostra Italia da moltissimi anni, come dimostrano gli scandali per sprechi e corruzione che risalgono nel tempo, come ho scritto in un recente articolo tratto dagli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla corruzione nella prima guerra mondiale, e che fece dire a Giovanni Giolitti “meno male che c’è la Grecia altrimenti saremo i più corrotti d’Europa”.

In questo contesto è evidente che l’articolo di Zurlo non poggia su una riflessione approfondita delle tematiche che vuole affrontare. Come quando, con riferimento all’accusa di Renzi ai magistrati che non chiuderebbero rapidamente i processi, Davigo individua questa situazione nell’effetto della prescrizione. Un fatto a tutti noto in conseguenza dell’abuso legislativo di un istituto che costituisce ununicum negli ordinamenti giudiziari dei paesi occidentali nei quali, quando lo Stato esercita l’azione penale la prescrizione perde il suo ruolo e quindi non decorre più.

Pensare che Zurlo ricorre all’odiato Renzi per attaccare Davigo è la migliore dimostrazione della strumentalità di una impostazione. Il fatto è che il nuovo presidente dell’associazione nazionale magistrati, grande comunicatore, non di favole ma di ragionamenti facilmente percepibili dal cittadino, costituisce un pericolo per coloro i quali giocano con la giustizia in un continuo dibattito dal quale non si esce con proposte concrete e credibili. Ricorda un po’ l’eloquio di Enrico Ferri che teneva banco con contraddittori di tutte le tendenze. Perché, ad onta di una certa incomprensione tra toghe e cittadini, sempre propensi ad aggirare quando possibile le leggi, per cui vedono nel magistrato colui che li richiama all’ordine, le persone oneste, che sono certamente la maggioranza del nostro popolo, guarda con attenzione al ruolo della giustizia e comprende facilmente il perché della sua lentezza in relazione alla farraginosità processuale scritta in leggi che non fanno certamente i magistrati ma i politici.

Né poteva mancare nella prosa di Zurlo un riferimento alle intercettazioni, difese da Davigo in più occasioni, anche quando sembrano di interesse esclusivamente privato mentre delineano un quadro comportamentale certamente rilevante al fine di comprendere il ruolo che in determinate circostanze ha avuto il soggetto intercettato. Naturalmente si parla dell’ormai famosa frase di Federica Guidi quando dice al fidanzato “mi hai trattato come una sguattera del Guatemala”, frase certamente privata ma che nel contesto della vicenda fa risaltare la ribellione del ministro nei confronti del suo compagno, che evidentemente non le è grato nonostante i numerosi piaceri che lei gli aveva fatto nella sua veste di imprenditore. La frase attesta le pressioni subite dal ministro e potrebbe, nel quadro di altre espressioni registrate dagli investigatori, sottolineare la sua responsabilità cioè il suo coinvolgimento nelle vicende oggetto delle indagini penali ovvero scagionarla perché, nonostante quelle pressioni, non sarebbe venuta meno alla sua responsabilità di ministro e di componente del governo. In questo dibattito è il limite oggettivo delle tesi con le quali si vorrebbe limitare l’uso delle intercettazioni, che è il vero problema che viene presentato all’opinione pubblica come una, condivisibile, critica alla loro diffusione indiscriminata. Pratica che i giornalisti conoscono bene che è conseguenza della diffusione di quei testi il più delle volte da parte degli avvocati difensori.

Alla ricerca di argomenti per attaccare Davigo, che è di destra e che dovrebbe quindi essere omogeneo al giornale sul quale Zurlo scrive, se a guidare la linea editoriale non fosse il Berlusconipensiero, il Nostro arriva a ridimensionare quella appartenenza ideale del magistrato sostenendo che essa non sia riferita all’attualità. D’altra parte la destra ha perduto da tempo ogni riferimento ideologico, basta richiamare il pensiero e gli scritti di Marcello Veneziani. Per cui il richiamo ideale di Davigo andrebbe a personaggi lontani nel tempo, a Cavour, a Ricasoli, a Quintino Sella. Ed è certo che Davigo ne sarà orgoglioso, lui che ha scritto “La giubba del Re” per indicare con un riferimento all’abito indossato da chi serviva lo stato con “disciplina ed onore”, già prima che ne parlasse la Costituzione della Repubblica italiana, perché la dignità del funzionario pubblico risale nel tempo, per quanti vi credevano e vi credono.

In chiusura mi piace ricordare la frase di un mio amico, il professore Emanuale Itta, che, qualche anno fa, a commento di alcune mie considerazioni sullo stato delle istituzioni e sul loro ruolo oggi, mi disse “tu sei proprio un uomo del Risorgimento”. Mi ci volle poco per capire che era un complimento, che non significava appartenere a un mondo superato, perché le regole della democrazia e dell’esercizio delle pubbliche funzioni sono immutabili nel tempo, come nell’antica Polis o nella Roma repubblicana e imperiale, esempi straordinari di fedeltà alla legge e alla missione storica delle istituzioni dello Stato.