Rai, RaiWay-EiTowers, un matrimonio di dubbia legittimità: ennesimo regalo a Fininvest. Un recentissimo decreto della Presidenza del consiglio dà la facoltà alla Rai di scendere fino al 30% della sua quota nella società collegata RaiWay, che dispone delle torri di irradiazione delle frequenze. Simile scelta ha un nome e un cognome: il via libera alla fusione con l’omologo apparato posseduto dal gruppo F2i e da Mfe, leggi Mediaset, rivela Vincenzo Vita sul Manifesto.
Visto che RaiWay è un vecchio gioiello di famiglia del servizio pubblico supportato abbondantemente dal vertice aziendale (vale a dire che il finanziamento è assai superiore ai servizi resi) e -per contro- la struttura gemella non pare avere una vera strategia, eccoci all’ennesimo regalo alla casa madre Fininvest.
Non parliamo neppure di conflitto di interessi, tema sceso di gradazione alcolica fino a reificarsi in un testo fragilissimo di cui è ripresa timidamente la discussione alla Camera dei deputati. Anzi. Pure nei confronti elettorali il fatto che le aziende berlusconiane continuino a stare ben tutelate nel perimetro governativo non suscita neppure qualche passeggera emozione. E la presa del potere nell’editoria di un parlamentare leghista -Antonio Angelucci- con società di cliniche private alle spalle viene accompagnato al più da una smorfia.
Torniamo alle torri di trasmissione. Queste ultime sono sì un residuo del vecchio mondo tecnologico, ma costituiscono una formidabile rete sul territorio, potenzialmente riconvertibile in una parte significativa della copertura del territorio con la banda larga e ultralarga. Tantissima acqua è passata dall’approccio univoco alla fibra ottica, essendoci un complesso di opportunità non meno efficaci. In tale contesto, le torri potrebbero vivere una seconda e forse una terza età.
Quindi, guai a trattare l’argomento come un aspetto ormai periferico rispetto al cuore dello sviluppo del sistema.
Non solo, però. La vicenda del fidanzamento prematrimoniale delle due società che operano sulla stessa spiaggia e sullo stesso mare evoca una questione, che sembra rimossa: la concentrazione.
Come è possibile che si perfezioni un intreccio volto a bloccare il mercato, rendendo sudditi e marginali eventuali soggetti che svolgono o intendessero svolgere omologa attività?
Che fine hanno fatto le silenti autorità di settore, in pregresse circostanze pronte a scattare al grido «concorrenza, concorrenza», ricorrendo immantinente alle apposite direzioni dell’Unione europea dove alberga un apposito commissariato? L’approccio e lo spirito antitrust valgono a giorni alterni o a seconda degli interessi in gioco?
Curioso e persino surreale, dunque, è il clima che si è determinato attorno ai vincoli anticoncentrazione, precipitati nel dimenticatoio dopo la ruggente epoca liberista, probabilmente. Al tentativo sovranista in corso tutto ciò appare desueto, ma non in nome di una impegnata idea di uno Stato imprenditore teso a favorire accessi liberi e pluralismo, bensì sotto il titolo della (presunta) difesa della Nazione.
In tal senso sembra andare il comma 3 dell’articolo 1 del citato decreto, che sostituisce quello del Dcpm del 17 febbraio 2022 (esecutivo Draghi), che evoca la difesa dei «…migliori standard di sicurezza e qualità per la diffusione dei contenuti del servizio pubblico radiotelevisivo…». Tutto ciò, però, rappresenta una debolissima trincea nei riguardi di un processo al cui fondo sta la perdita del controllo da parte della Rai.
Perché? Il sindacato dei giornalisti legge in simile operazione un prolegomeno di una privatizzazione tentata a più riprese nel corso degli anni.
Nel 2001 l’allora ministro delle comunicazioni Gasparri si vantò di aver bloccato la cessione del 49% delle azioni di RaiWay al gruppo Crown Castle, malgrado un notevole introito da utilizzare per la transizione digitale. Già, ma allora il direttore generale Cappon era considerato troppo vicino al centrosinistra.
Oggi la destra continua la cavalcata nera sulla Rai non dimenticandosi del secondo pilastro del consenso, ovvero Mediaset. L’Antitrust? O la va o la spacca, secondo la giurisprudenza di Palazzo Chigi.