A chi, sommerso dalle pratiche e illanguidito dal grigiore del confinamento ministeriale, non è capitato di detestare il proprio ufficio? Guy de Maupassant, impiegato svogliato e renitente prima di affrancarsi come scrittore e giornalista, odiava il suo lavoro con una passione ardente.
LeggerMente: “L’eredità” di Guy de Maupassant
Con la novella L’eredità (Carbonio Editore, pagg. 160, 15 euro, traduzione di Bruno Nacci), pubblicata nel 1884, Maupassant regola i conti con quell’esperienza fallimentare descrivendo la sordidezza piccolo-borghese di un travet alle prese con il matrimonio del figlio, che sogna di accasare con una giovane ereditiera. Il matrimonio si farà, ma i soldi arriveranno solo a una condizione.
Quanto all’autore, l’arte del racconto libererà il travet riluttante dal detestato posto fisso al ministero, ma non cancellerà una certa indolenza caratteriale, unita a uno smodato appetito sessuale. Gustave Flaubert, suo amato mentore e padrino, lo rimproverava già dai giorni dell’inferno impiegatizio. Giuseppe Scaraffia, su Il Sole 24 Ore dell’8 dicembre 2024, cita in proposito una lettera del 15 agosto 1878.
“Bisogna, ascolta bene giovanotto, lavorare di più. Arrivo a sospettarti di essere leggermente ottuso. Troppe puttane! Troppo canottaggio! Troppo esercizio! Sissignore! La civiltà non ha tanto bisogno di movimento come pretendono i medici. Tu sei nato per fare versi, falli! Tutto il resto è vano, a cominciare dai piaceri e dalla salute…”.