Bufale sul web, scienza e matematica per analizzarle

Pubblicato il 20 Dicembre 2016 - 18:23 OLTRE 6 MESI FA
Walter Quattrociocchi

Walter Quattrociocchi

Roma – Da qualche tempo a questa parte la stampa ha messo al centro dei suoi interessi un importante fenomeno, quello  delle bufale sul web. C’è chi però non si ferma alla discussione ma le analizza usando strumenti matematici e scientifici.

Come Walter Quattrociocchi che nel suo laboratorio, il CSSLab presso l’IMT – School for Advanced Studies di Lucca, si occupa già da anni dell’analisi delle teorie del complotto, di informazioni false e di come queste si propagano sulla Rete. Per farlo, lui e il suo team si servono di modelli matematici innovativi e strumenti della scienza sociale computazionale. I suoi studi sulla diffusione delle informazioni false sono citati dalla stampa nazionale e internazionale.

Quattrociocchi ha spiegato a SocialCom come funziona la sua attività e quali sono gli strumenti possibili per combattere le bufale online.

Matteo Renzi all’ultima assemblea del PD ha sdoganato il tema delle bufale e di come queste hanno influenzato la campagna dell’ultimo referendum. Tu già da anni ti occupi del fenomeno nei tuoi studi. Come hai iniziato?

«Siamo partiti verso la fine del 2012, quando avevamo già osservato come le informazioni non verificate riuscivano a propagarsi sulla Rete, anche quando erano palesemente false. Attraverso un mega esperimento che ha studiato il comportamento degli utenti sui social, siamo giunti a una nostra teoria che dimostra come le persone, nella selezione delle notizie via social, non guardino in realtà alla verità dell’informazione, ma a quanto questa sia coerente con quello che vogliono sapere. Con quello che abbiamo chiamato pregiudizio di conferma, “confirmation bias”. In altre parole, i social sono una sorta di “supermercato dell’informazione”, dove ognuno “acquista ciò che sembra più coerente con i suoi gusti, al di là della qualità e attendibilità del “prodotto”.

Questo processo che tu descrivi deriva in parte dalla “disintermediazione” che è stata resa possibile dai social, che ha modificato profondamente anche il ruolo dei giornalisti. È solo questa la radice del problema?

«Direi che parzialmente è vero. L’assenza di intermediari ha avuto un peso in questo. I giornalisti si sono trovati a inseguire questo cambiamento e sono diventati attori come gli altri nel sistema. Chiunque può fare un tweet o un post e improvvisarsi in qualche modo fonte di informazione. È anche vero che spesso c’è molto dilettantismo anche nel mondo giornalistico. Guardiamo per esempio a quello che succede nell’informazione scientifica, dove chi parla non sa spesso quello che dice. Quindi è colpa del sistema, fino a un certo punto. È chiaro che è impensabile il ritorno a un sistema informativo gerarchico come quello di 20 anni fa. Quindi bisogna cercare altre soluzioni»

Secondo noi la disintermediazione nell’informazione è un “minus”, ma anche un “plus”. Senza, non avremmo saputo per esempio della rivolta degli studenti in Iran o di quello che sta succedendo in Siria. Insomma, questo modello ci ha permesso di venire a conoscenza di cose che altrimenti avremmo ignorato…

«Sì questo sicuramente è vero. Ma se affronti il tema in generale, la disintermediazione ha cambiato i meccanismi di selezione che non viene fatta più da un mediatore, ma da chiunque. E ha modificato anche la sua distrubizione: la popolarità della notizia non è legata alla sua veridicità o utilità, ma al numero di like che è riuscita a raggiungere. Non c’è più un’élite di verifica e neanche la soluzione del fact checking (il controllo delle fonti da parte dei professionisti dell’informazione, ndr) operato da parte di terzi o dagli stessi social, mi sembra una soluzione auspicabile».

Su questo siamo d’accordo. È impensabile che i social stabiliscano una sorta di “tribunale del topic”, in cui verificare di volta in volta ciò che è giusto e ciò che non lo è. Soprattutto in un contesto in cui anche i giornali più autorevoli fanno uso del click baiting e della rincorsa al titolo “acchiappa click”…

«Esatto. I nostri studi hanno dimostrato che c’è un meccanismo di propagazione dell’informazione sui social che segue un suo percorso, al di là di tutti i discorsi che possono essere fatti sul fact checking. Ogni attore del sistema cerca quello che più lo aggrada sui social media e poi filtra le informazioni alla community di cui è parte, mentre ignora tutto quello che confuta la tesi che ha già precostituito. In questo processo il titolo sensazionalistico ha più probabilità di propagarsi perché spesso diventa “uno sfogo” per far discutere. In questo sistema a nessuno interessa che la notizia sia falsa o vera».

Spesso succede che alla base della diffusione di una notizia falsa, ci sia tuttavia un problema reale. Pensiamo a come determinati gruppi politici amplificano tematiche come la corruzione, l’immigrazione o la spesa pubblica. I social in questo caso sono solo una cassa di risonanza di un problema reale?

«Io non parlerei di amplificazione, ma di semplificazione. Il cervello usa degli “shorter”, delle scorciatoie. Insomma, è più facile legare la crisi economica all’immigrazione, che a un processo indotto da una fluttuazione dei mercati poiché la seconda ipotesi la capirebbero solo quattro laureati in economia. I social e alcuni gruppi politici usano queste tematiche come valvola di sfogo a un’idea che già c’è nell’utente che ne usufruisce. Non è vero, infatti, che le info sui social cambiano le idee, a aiutano a mobilitare un’opinione. Ed è in questo senso che va intesa l’amplificazione di cui parli».

Secondo una nostra osservazione i social sono un po’ quello che negli anni ’80 erano alcuni giornali di cronaca nera o rosa che servivano a veicolare le tesi più populiste. Poi questo ruolo è passato alla televisione e dopo ai social. Oggi si dice è vero perché lo ha detto Facebook. Sei d’accordo?

«In realtà la gente se ne frega se una notizia è vera o falsa. L’importante è che segua una precisa narrazione che chi la sceglie ha deciso di adottare. Senza questa lettura non spiegheresti perché lo stesso utente usa l’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) a sostegno della sua tesi, quando si tratta di spiegare che la carne provoca il tumore. E magari anche nella stessa giornata, attacca proprio l’OMS quando spiega l’utilità dei vaccini. La differenza rispetto agli anni ’80 è che un giornale di quel tipo poteva avere una tiratura di 30mila persone. I social ne muovono milioni. Questo cambia totalmente la dinamica del processo, che non è più marginale».

Il tuo team si è occupato anche di bufale alimentari. C’è il caso clamoroso della Parmalat quando su Whatsapp veniva divulgata la notizia che l’azienda aveva deciso di non rinnovare il contratto con gli allevatori delle Valli Genovesi, per comprare latte dalla Cina. Cosa ricordi dell’episodio?

«Noi non ci occupiamo di singoli casi specifici perché lavoriamo su una grande mole di informazioni. Ma ciò detto ci siamo imbattuti anche in bufale alimentari. Questa è la più clamorosa e sarebbe bastata una riflessione facile per smorzarla. Come fa il latte a conservarsi se trasportato dalla Cina?».

Si è passati dalla verità dell’informazione alla sua plausibilità?

«È così. Ciò che conta non è che sia vera o falsa, ma che tocchi “alcuni punti emotivi delle persone”. Se riesce a farlo, passa e si divulga sulla Rete».

La percezione delle bufale da parte dell’informazione pubblica è cambiata negli anni. Prima le si considerava un fenomeno divertente, poi si parlava di sciocchezze per i siti che le divulgavano. Poi sono nate quelle alimentari e sanitarie che hanno danneggiato i brand e messo a repentaglio la salute delle persone. Ora l’opinione pubblica ha capito come questi fenomeni creano consenso. Come se ne esce?

«O cambi il sistema informativo e i suoi attori. Oppure, ipotesi più verosimile, punti a creare sinergie tra istituzioni, sistema informativo e chi ne fa parte. Bisogna attivare insomma degli anticorpi, ma sarà un processo lungo che richiederà decenni per trovare una soluzione. Quello che noi stiamo facendo è di creare un Osservatorio sui social unendo accademici, giornalisti, ed esperti nel campo dei big data. L’organizzazione dovrà occuparsi di studiare cosa succede sui social e porre delle condizioni: non è possibile che Facebook e Twitter, data la potenza che hanno, si auto-regolamentino. Ora siamo ancora nella fase di raccolta fondi. Tra i temi che tratteremo ce n’è uno interessante sulla natura stessa delle bufale, se è più facile divulgarle con argomenti altamente polarizzanti, come il “SI’” o “NO” del Referendum».