CRISI: GLI USA A RIMORCHIO DELL’EUROPA

Il Corriere della Sera pubblica un editoriale di Massimo Gaggi sulla crisi finanziaria intitolato ”Addio al modello Reagan, l’America copia la Ue”. Lo riportiamo di seguito:

”Cupo come dopo l’11 settembre 2001, ma senza gli scatti d’orgoglio di allora, all’alba ieri, prima dell’apertura dei mercati, George Bush ha annunciato a reti unificate il piano che non avrebbe mai voluto varare. Quel piano che prevede il massiccio ingresso del governo federale nel capitale delle principali istituzioni finanziarie, più una serie di altri interventi (compresa la garanzia pubblica sui prestiti interbancari) che rendono lo Stato onnipresente nel sistema finanziario: come azionista, creditore e controparte di ultima istanza.

Bush voleva prendere il posto di Reagan nel cuore dei conservatori, portando la "deregulation" alle sue estreme conseguenze e legando anche i ceti meno abbienti al sistema capitalistico con la sua «ownership society». Invece ha fatto crollare la già malferma costruzione reaganiana e ora se ne va lasciandosi dietro un cumulo di macerie. Sotto le quali è rimasto semisepolto anche Henry Paulson, il ministro del Tesoro chiamato due anni fa per cercare di raddrizzare la situazione. Fino a un mese fa l’ex banchiere di Goldman Sachs passava per l’uomo della Provvidenza: il leader pragmatico capace di traghettare il Paese fuori dalla crisi con azioni tempestive, senza cadere in trabocchetti ideologici.

Ma gli elogi, gli articoli-santino, le «cover story» dei «magazine» sono finiti col fallimento della Lehman, «autorizzato» da Paulson che ne aveva sottovalutato le conseguenze. Il vero "meltdown" della finanza mondiale è iniziato quel giorno. Una reazione a catena che ha demolito due speranze: quella di poter contenere la crisi e quella di aver finalmente trovato una "leadership".

Da settimane Paulson sembra sempre sull’orlo di una crisi di nervi. Non ha riacquistato sicurezza nemmeno ieri, quando, parlando dopo il presidente, ha illustrato un pacchetto di misure senza precedenti: 25 miliardi di dollari di capitale pubblico a ognuna delle principali banche commerciali Usa (Citigroup, JP Morgan, Bank of America, un po’ meno per Wells Fargo) 10 miliardi ciascuna alle ex banche d’affari Goldman Sachs e Morgan Stanley, qualche miliardo a Mellon, State e Bank of New York, altri 125 miliardi da distribuire tra le banche locali. E poi garanzia federale per tre anni sull’intero ammontare dei prestiti interbancari, estensione della garanzia sul totale dei depositi bancari fino a fine 2009, estensione del programma di acquisto (da parte della Fed) dei «commercial paper» con i quali le «corporation» finanziano il loro fabbisogno di capitale circolante.

Dopo il recupero della Borsa, rimbalzata lunedì addirittura dell’11%, il ministro avrebbe potuto mostrarsi almeno sollevato per lo scampato pericolo. Invece è apparso tetro anche lui. E’ comprensibile: solo pochi giorni fa, a chi gli chiedeva di intervenire acquistando direttamente quote del capitale delle banche anziché titoli "tossici" nel loro portafoglio, Paulson aveva opposto un secco rifiuto: «Sarebbe stato l’ammissione di un fallimento».

Ieri, capitolando, non si è nascosto dietro un dito: ha ammesso di aver dovuto adottare misure che lui stesso detesta, aggiungendo che, ormai, non aveva scelta. Stavolta le critiche non sono mancate: in primo luogo è emerso che la Fed di Bernanke si era convinta da tempo della necessità di un’infusione immediata di capitale nelle banche.

Se Paulson non avesse resistito (forse su pressione della Casa Bianca), l’America si sarebbe forse risparmiata la settimana più disastrosa della storia finanziaria degli ultimi 80 anni. Invece Washington ha finito per andare a rimorchio dell’Europa, a sua volta trainata dal piano-Brown. Ma, mentre Londra ha nazionalizzato le sue banche e cacciato i vertici, Paulson ha garantito ai banchieri (comunque recalcitranti) che comprerà solo azioni privilegiate, senza diritto di voto: il governo promette, insomma, di non interferire nella gestione. Sarà, però, difficile riprivatizzare vendendo sul mercato questo tipo di titolo.

Ieri, pur con Wall Street in altalena, dal sistema creditizio sono arrivati segnali incoraggianti: sembra finita la corsa al «rifugio sicuro» dei buoni del Tesoro mentre cala il costo di assicurazione del debito delle grandi banche. Ma le incognite sono ancora molte: dagli effetti potenzialmente perversi di un salvataggio che premia tutti nello stesso modo, buoni e cattivi, all’impossibilità di calcolare la vera estensione del debito pubblico, visto che nessuno sa fino a che punto banche e risparmiatori utilizzeranno le garanzie offerte dal Tesoro Usa e da molti altri governi”.

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