CRISI, USA: POLITICA FISCALE UNICO STRUMENTO

Il Corriere della Sera pubblica un editoriale di Francesco Giavazzi sulle misure per risanare l'economia Usa intitolato ''Facciano presto e tanto''. Lo riportiamo di seguito:

''Dall’inizio della crisi gli Stati Uniti hanno mobilitato una quantità straordinaria di denaro, quasi 9 trilioni di dollari, ai quali si è aggiunto ora il programma fiscale del presidente Obama che vale un altro trilione di dollari. Per avere un’idea delle dimensioni, con una cifra simile il governo di Washington avrebbe potuto acquistare i mutui di tutte le famiglie americane (valgono circa 10,5 trilioni) e così liberare le banche da ogni rischio immobiliare. Entrato in possesso dei mutui ne avrebbe potuto cambiare rate e condizioni di rimborso, in modo da consentire alle famiglie di continuare a pagare e così non perdere la casa. Le abitazioni abbandonate da famiglie che non sono riuscite a tenere il passo con le rate del loro mutuo sono oggi 2,3 milioni, un milione e mezzo più di due anni fa.

Nonostante tanto denaro mobilitato, siamo ancora al punto di partenza. Nei mesi scorsi gli interventi delle banche centrali hanno allentato le tensioni sui mercati finanziari, ma l’opera di riparazione dei bilanci delle banche americane è ancora sostanzialmente tutta da fare. E questa rimane la priorità perché dalla lunga recessione giapponese abbiamo imparato che se non si riparano i bilanci delle banche gli interventi fiscali sono denari gettati al vento.

Dopo diciotto mesi di tentativi falliti, il neoministro del Tesoro, Tim Geithner, e il nuovo consigliere di Obama per le questioni finanziarie, Jerome Stein, si sono convinti che per risanare le banche occorre liberarle dai prestiti andati a male trasferendoli a nuove istituzioni, cosiddette «bad banks» garantite dallo Stato. (Con grande preveggenza già un anno fa, sul «Corriere della Sera», Luigi Spaventa scriveva che questa era l’unica soluzione che avrebbe funzionato). La difficoltà è come valutare i titoli che vengono trasferiti dalle banche alle «bad banks»: se si pagano troppo, i contribuenti fanno un regalo alle banche, se troppo poco l’intervento non serve a salvarle. Geithner avrebbe deciso di affidare queste valutazioni al mercato, dando ad alcuni investitori specializzati (ad esempio fondi di private equity) l’incentivo a farlo.

Teoricamente è il modo giusto, speriamo funzioni.

Alcuni, infatti, temono che il programma di Geithner allinei gli incentivi di questi investitori a quelli dei banchieri, con il rischio che a pagare siano i contribuenti. L’alternativa — sostenuta fino all’ultimo da alcuni dei consiglieri di Obama—è la soluzione inglese: nazionalizzare le banche e poi rivenderle, magari proprio a fondi di private equity, che a quel punto avrebbero interessi opposti a quelli dei banchieri e quindi potrebbero meglio garantire gli interessi dei contribuenti. Ma il Congresso degli Stati Uniti non è pronto ad accettare nazionalizzazioni.

L’avversione ad un intervento diretto dello Stato nelle banche non è solo ideologica, riflette anche qualche valutazione sull’esperienza degli anni Trenta. Secondo alcuni storici, ad esempio Robert Higgs, la Grande Depressione durò così a lungo anche perché il New Deal di Franklin D. Roosevelt diffuse dubbi sul futuro dell’economia di mercato e soffocò gli investimenti privati.

Lammot du Pont, presidente di du Pont de Nemours, una delle maggiori aziende americane, scriveva nel 1937: «L’incertezza su quali saranno le condizioni giuridiche nelle quali le nostre imprese si troveranno a lavorare, quale ruolo avrà lo Stato nell’economia, il rischio di limitazioni alla libertà d’impresa, la possibilità stessa che l’economia di mercato sopravviva alla crisi ci preoccupano e certo non ci incoraggiano a investire».

Riparate le banche, il problema successivo è come cambiare le aspettative. Quanto pessimismo vi sia fra gli imprenditori lo si legge nei dati sulla produttività americana che in questi mesi è aumentata rapidamente: più 3,2% nell’ultimo trimestre dello scorso anno. Di solito in una recessione la produttività diminuisce perché le aziende riducono i dipendenti meno rapidamente di quanto non riducano la produzione: questa volta è accaduto il contrario, segno che gli imprenditori vedono un futuro particolarmente cupo.

Il modo per cambiare le aspettative delle aziende è ripristinare gli ordini, e la politica fiscale oggi è l’unico strumento che consenta di farlo. Negli Stati Uniti si è svolto un dibattito acceso sui meriti relativi di un taglio delle tasse rispetto ad aumenti di spesa. Olivier Blanchard, capo economista del Fondo monetario internazionale, ha scritto sull’Economist della scorsa settimana: «Fate come preferite, ma fate presto, soprattutto fate tanto perché interventi marginali non riuscirebbero a cambiare le aspettative».

Il piano che il Congresso approverà oggi soddisfa questa condizione perché la sua dimensione è davvero straordinaria: il 7 per cento del Pil. Riuscirà a salvare il mondo? Speriamo. Il piano di Obama consiste per circa il 60% in aumenti di spesa, 40% in riduzioni di imposte. Gli studi che conosco concludono che il denaro pubblico speso per evitare licenziamenti (il piano include 40 miliardi di dollari di trasferimenti alle amministrazioni locali per evitare riduzioni di dipendenti) o per sostenere il reddito di chi perde il lavoro, si traduce in consumi. Sull’efficacia degli investimenti pubblici o dei tagli generalizzati delle tasse (ad esempio i 70 miliardi previsti per l’eliminazione dell’Alternative minimun tax, un’imposta introdotta da Bush e che colpisce soprattutto le famiglie più abbienti) non sappiamo abbastanza.

Ma una cosa è certa: dopo aver per anni accusato gli Stati Uniti di non risparmiare a sufficienza, Cina, Europa e Giappone oggi sperano che gli americani ricomincino a spendere perché questi paesi il rischio di un’espansione della loro domanda interna non se lo vogliono assumere. Poi non lamentiamoci degli «squilibri dell’economia globale»''.

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