Monica Setta ha aperto la sua nuova trasmissione su Rai2, “Il fatto del giorno, poche ore dopo i funerali dei sei parà della Folgore uccisi a Kabul e il risultato del sondaggio telefonico, che è un suo “trademark”, era abbastanza scontato. Due terzi dei cittadini che guardavano il programma e hanno telefonato (non è stato comunicato il numero assoluto) si sono detti per il ritiro immediato dei nostri soldati dall’Afghanistan. Il minimo in un paese dove la comunicazione dei governi Prodi e Berlusconi, che si sono succeduti e hanno condiviso la decisione di partecipare alla missione è stata ambigua, contraddittoria e negli ultimi giorni anche apertamente negativa da parte di esponenti della stessa maggioranza.
C’ è stato poi un dibattito sull’uccisione di Sanaa, la ragazza musulmana che il padre marocchino ha ucciso a Pordenone perché voleva sposare un cristiano. Molto interessante, educativo e anche utile a stimolare una riflessione.
C’era da consolarsi, a sentire parlare gli ospiti, perché veniva confermato come ormai l’Italia sia un paese di giovani, di gente i cui ricordi personali vanno indietro solo di pochi anni e non di decenni; ma c’era anche da non stare molto allegri, perché quel patrimonio che è la memoria collettiva è avvolto nella nebbia del benessere e della libertà quasi assoluta di cui ora, almeno per ora, godiamo.
A sentire i vari interventi nel salotto di Monica Setta, si aveva l’impressione di stare in un paese dove i fondamenti della civiltà liberale e laica affondino nei secoli, dove si è perso il ricordo del delitto d’onore, dove i padri hanno sempre lasciato liberi i figli di vivere la loro vita, le ragazze di sposare chi scegliessero.
Eppure “Divorzio all’italiana” ogni tanto lo trasmettono ancora in tv: non era un film di fantasia.
L’anatema lanciato dal pulpito domenicale dal vescovo di Prato che bollò come “pubblici concubini” due che vivevano more uxorio senza essere sposati non è dell’ottocento, ma degli anni sessanta. A questo proposito: andiamoci piano nell’usare i preti, quando pontificano di costumi e morale sessuale, chiunque sia il reprobo. Vuole dire rischiare di cancellare conquiste molto recenti e quindi molto fragili.
Ancora non molti anni fa le donne portavano il velo e, ancora dopo la guerra, le signore eleganti avevano una “veletta”, un piccolo accenno di velo che faceva ombra ai loro occhi: non in Iran, in Italia.
A proposito di religione: la Chiesa cattolica romana tollera il matrimonio con fedeli di altre religioni a patto che i figli siano battezzati e educati da cristiani. Una volta gli davano fuoco, vivi, esattamente come in Arabia saudita c’è la lapidazione. Non è un problema di fede, ma di evoluzione e l’evoluzione viene dal benessere o dalla violenza imposta da personaggi certo assai poco democratici come Kamal Ataturk o il vituperato Saddam Hussein e ora che non c’è più, quanti se ne sgozzano in nome del loro dio.
La religione c’entra con la violenza, certo, perché da una motivazione nobile alla violenza. L’Europa è una via crucis di monumeti e memorie di violenze perpetrate in nome della vera fede. Carlo Magno convertiva le terre dell’est a fil di spada; così facevano i cavalieri teutonici. Il Papa di Roma preferiva il rogo, la regina d’Inghilterra la scure: il tutto neò segno della croce. Oggi noi ci siamo evoluti e pontifichiamo (60 anni appena dopo i lager e molti meno dal gulag) e guardiamo sprezzanti i musulmani, la cui maggioranza vorrebbe solo vivere come noi e invece va alla moschea a pregare, come era da noi una volta e è ancora nei paesi, mentre nelle grandi cirttà le chiese sono vuote e preti italiani non ce n’è più.
Allora il problema non è la fede, ma l’uso che il violento che fa e per questo tutte le fedi sono buone, cambia solo la violenza.
Ma torniamo al dibattito di oggi. L’uccisione della povera Sanaa è un fatto isolato. Ci sono milioni di musulmani in Italia, solo qualcuno sgozza la figlia e sono molto più numerosi gli italiani che uccidono altri cristiani e non cristiani, e sono più numerosi non perché gli italiani o i cristiani siano intrinsecamente più cattivi, ma semplicemente perché sono di più.
E diciamoci ancora una cosa: non c’è molta differenza tra l’imam che giustifica lo sgozzamento di Sanaa e quel prete cattolico che dal pulpito di una chiesa poco fuori Roma ha detto di recente: “Mi hanno chiesto consiglio i genitori di una ragazza che si comportava in modo ribelle, dormiva fuori casa, entrava e usciva. Ho detto loro: mandatela via di casa e così hanno fatto”. Carità cristiana?
C’è anche da ricordare che quelli che partecipano ai talk show e in genere esprimono opinioni articolate su qualsiasi tema o sono di classe media o medio alta o hanno fatto studi e magari anche raggiunto livelli di reddito che li hanno allontanati dalla classe di provenienza. Tutti costoro pretendono di applicare i loro modi di ragionare, che non dipendono dalla religione bensì dal benessere, anche ai poveri. I poveri, quelli veri, non sono solo un dato statistico. Li caratterizzano anche stili di vita, modi di pensare e comportamenti ben diversi da quelli che stanno bene o meglio. La differenza di classe c’è e accomuna più di quanto la religione divida. E non basta un benessere di recente conseguito a cancellarla.
Non è peculiare degli immigrati in Italia. Così era per i nostri emigranti i Europa e in America. All’estero ci chiamano ancora oggi maccaroni, per il nutrimento preferito oppure mafiosi per i film che tanto ci disperiamo quando, giustamente, non sono premiati.
Un lavoratore immigrato da un paese come il Marocco, trova in Italia condizioni di benessere superiori, così come accadeva all’italiano che emigrava in America. Ma la lingua, i costumi, la cucina del paese ospitante non potranno mai essere fatti propri. E’ toccato e toccherà ai figli, specie nati e cresciuti nella nuova patria, diventare americani o italiani.
Fa eccezione la Germania, paese che al di là degli stereotipi, ha una politica dell’immigrazione e gli italiani e i turchi che sono andati in Germania a lavorare, difficilmente tornano al paese di provenienza quando smettono.
Forse un viaggio in Germania, per capire come fanno, può essere un sistema, più impegnativo che un dibattito tv o una dichiarazione a un’agenzia, ma più utile.
Dopo di che, in America o in Germania, l’integrazione degli immigrati è l’ultima delle preoccupazioni. Senti parlare di integrazione con lo stesso spirito un po’ razzista e un po’ classista dell’assistente sociale. L’integrazione avviene con i secoli, sempre che i nuovi arrivati non siano talmente numerosi o così chiusi o entrambe le cose da potere conservare usi costumi e cucina anche nel nuovo paese. In America, gli europei si sono fusi e integrati, e gli italiani hanno anche dato un contributo decisivo all’evoluzione alimentare con gli spaghetti e la pizza. Ma riconosciamo che un italiano sarà sempre più felice se i suoi figli sposeranno altri italiani, al massimo irlandesi che sono cattolici anche loro, idem per gli ebrei, basta guardare “Sex and the city”; i russi e gli ucraini convivono felici, ebrei e cristiani accomunati dalla lingua e dalla cucina, nella loro “piccola Odessa” dove si sentono protetti dalla brutalità anglo- italo- irlandese; i cinesi e i latino americani hanno imposto anche la loro lingua.
Insomma, non facciamo un dramma nazionale tutte le volte che uno con un altro passaporto commette un crimine. Se i giornali prendessero l’abitudine di qualificare con la nazionalità anche i delitti perpetrati da italiani, finiremmo per scendere in piazza contro noi stessi.