Elezioni, l’Italia si fa in tre: quella che non vota, quella che “meno male che Silvio c’è”, quella del “tutto tranne che Berlusconi”. Nella cucina del consenso forse bolle una sorpresa

Week-end elettorale uno e trino, ma, al posto del mistero, forse c’è la sorpresa. Uno e trino, perché l’Italia si fa in tre restando sempre se stessa: quella che a votare non ci va, quella che “meno male che Silvio c’è”, quella che “tutto, tranne Berlusconi”. Tre “anime” del paese distanti tra loro, tra loro più nemiche che avversarie, ma tutte e tre, a loro e diverso modo, politicamente e civilmente anime in pena.

Ecco perché nel fine settimana forse qualcosa di non del tutto calcolato nei sondaggi cucina la sorpresa: i risultati sono infatti già scritti nelle intenzioni di voto che appaiono chiare, però c’è l’intenzione di non voto. Che ci sia ognun la vede, quanta sia nessun lo sa. E quantità e colore politico di chi a votare non ci va cambiano, anche di molto, i risultati già scritti e ragionevolmente attesi.

Stavolta l’Italia che non ci va può risultare il “partito” di maggioranza relativo. Un vento astensionista percorre l’Europa, spira anche in Italia, indipendentemente dalle casalinghe vicende. Poi c’è la novità: l’assenza e l’amputazione del lunedì. Si vota sabato e domenica, l’affluenza qualcosa pagherà ai tempi e modi del privato week-end. E c’è lo stato di depressione civile dell’elettorato di centro sinistra. E c’è perfino qualche rivolo esiguo di fastidio per i modi, se non per la sostanza, del governare berlusconiano. Tutto frullato e mischiato potrebbe fare il 40 per cento che a votare non ci va.

Per l’Italia del “meno male che Silvio c’è” Berlusconi ha fissato l’asticella della prestazione molto in alto: tra il 43 e il 45 per cento. Può succedere solo in un caso: l’elettorato di centrodestra a votare ci va, quello di centrosinistra molto meno. Infatti il Pdl, una volta Forza Italia più An, vale elettoralmente circa il 40 per cento dei voti ad affluenza ai seggi intorno all’ottanta per cento. La percentuale cresce se gli altri latitano oppure se c’è massiccio passaggio di voti da sinistra a destra. Possibile la prima ipotesi, improbabile la seconda. Comunque, tra il 43 e il 45 per cento è il plebiscito che Berlusconi chiede, la “carta bianca” che il paese gli dà. Quaranta per cento è vittoria e supremazia senza trionfo e cambiale in bianco, sotto il quaranta sarebbe sconfitta, anche se la negherebbero.

Per l’Italia del “tutto tranne che Berlusconi” i numeri della vigilia sono avari ma chiari. Sotto il 25 per cento il Pd si squaglia, sopra il 25 sopravvive. Se si squaglia, si squaglia l’idea di una sinistra riformista e di governo. L’idea, la pratica si è già squagliata. Per Di Pietro e il suo partito la misura è il raddoppio: dal quattro all’otto per cento. Dopo essersi proclamato come l’unico oppositore tosto a Berlusconi, sotto l’otto per cento risulterebbe tosto come un biscotto nel latte. Per la sinistra-sinistra, ancora e sempre divisa in due liste che si fronteggiano ostili più che concorrenti, sopra il quorum del quattro per cento c’è la rinascita, sotto la conferma della diabolicità del doppio, anzi triplo, quadruplo errore. Non basta, il numero forse più importante da guardare per questa Italia è quello che viene da una sottrazione: quanto fa Pdl meno Pd? Se fa più di quindici, se la distanza tra Berlusconi e il più votato dei suoi oppositori supera il 15 per cento, allora gli altri numeri contano meno, sono solo magra, interna consolazione per l’Italia che di Silvio non è.

E poi c’è la Lega, e poi l’Udc. Bossi deve fare il solletico al dieci per cento, altrimenti è occasione perduta. Sull’azione di governo il marchio leghista c’è, la cultura leghista si afferma e impone. Serve, è il momento del “timbro” elettorale. Si può fare, anche perché il vento di destra estrema che spira in Europa negli altri paesi soffia fuori dal giradino del governo, in Italia invece c’è la vela della Lega a raccoglierlo, vela che sta sull’albero di maestra del governo in carica. Casini deve tenere quota sei per cento, per non essere assorbito domani dal centrodestra, per poter attrarre domani dal centrosinistra, per crederci e per far credere che un centro moderato in Italia esiste e non solo sui giornali. Ultimo numero da guardare: quello delle preferenze a Berlusconi, ne vuole tra i tre e mezzo e i quattro milioni. Sotto ci soffrirebbe molto.

Si vota per questo, per questi numeri, per reciprocamente contarsi tra queste tre Italie. Non per i numeri della crisi economica: sia l’Italia di Silvio che quella a lui contraria pensano che una qualche forma di pubblica e provvidenziale assistenza dalla crisi li ripartirà e risarcirà, quindi disoccupazione e caduta del reddito e dei consumi almeno per ora voti non ne spostano. Non per l’Europa di cui le tre Italia poco sanno e ancor meno vogliono sapere.

Si vota, ancora una volta, su Silvio, soprattutto su Silvio e, appena un po’, anche su Noemi. E poi c’è l’altra elezione, quella amministrativa: 62 province, centinaia di comuni, migliaia di consigli e consiglieri. Il più grande concorso a un posto pubblico del 2009: 800mila aspiranti, 90mila posti.Ed è questa la quarta Italia, quella che la Casta non la sopporta più e quindi fa di tutto e in massa per entrarci nella Casta.

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