Genova, la retata in Regione porta a queste riflessioni. “Chierichetti”, “beghine” e gli indagati genovesi “eccellenti”.
Il “chierichetto” è il ragazzino che serve messa, sa come spostare il messale e suonare il campanello, ma non è tenuto a conoscere i Vangeli. In Italia, esiste una moltitudine di “chierichetti” che aspirano a un vescovado. L’individuo che sa tenere il microfono in mano, si sente un grande comunicatore e pensa di poter diventare ministro. Le istituzioni di carriera (le burocrazie e le varie polizie) sono un ricettacolo di “chierichetti”, ossia di individui che applicano il manuale ma non sono in grado di capirne il contenuto.
La “beghina”, è la “praticante non credente” che va tutti i giorni in Chiesa pregando disgrazie per la vicina di casa che le sta antipatica. Le indagini genovesi riguardano “chierichetti” supponenti (Toti e il suo entourage) e “beghine” allo stato puro (il gruppo giustizialista). Nessuno di questi “personaggi” sembra capire che la posta effettiva in gioco è la tutela dello Stato di diritto, un problema che dovrebbe unirli piuttosto che dividerli.
Le indagini a “strascico” sono legittime? Nel caso dei “crimini” genovesi si è verificato che la polizia tributaria veniva a conoscenza delle ipotesi di reato in tempo reale, grazie alle “registrazioni” ambientali. E’ così accaduto che, rispetto ad un’indagine avviata da quattro anni, in relazione a supposte tangenti per la spartizione degli spazi portuali, si sono aperte indagini diverse per tutti i reati “orecchiati” in epoca successiva (fino ad “oggi”).
All’indagine iniziale nei confronti del soggetto A, vengono aggiunti i nomi di B,C,D e così via, in una catena senza fine. Non ci troviamo forse dinnanzi alla tecnica del “reato-civetta”, che consiste nel configurare un reato, magari risultato inesistente, per piazzare la cimice sotto il “letto” degli inquisiti ed avviare indagini a tutto campo?
In effetti, in questi casi, non si tratta un’indagine in senso proprio, bensì del semplice uso di tecniche informatiche che riprendono pensieri, giudizi, informazioni spesso rese da terzi. La prova del reato, certa ed oggettiva, deve essere ancora trovata. Del tutto risibile la prova “induttiva”, come quella relativa allo spegnimento dei cellulari per evitare di essere ascoltati, da cui deriverebbe l’intento di nascondere i reati.
Il caso Palamara e numerosi altri, hanno dimostrato che proprio i magistrati di alto rango, lasciano i telefonini nello studio e vanno a parlare tra loro in garage. In Italia, e solo in Italia, la sindrome del grande orecchio che ti spia di continuo, è ormai entrata nella psiche della gente comune.
In campo penale esistono migliaia di norme di difficile interpretazione, in ispecie materia economica, un campo in cui i magistrati inquirenti non sempre danno prova di una preparazione adeguata. Questo tipo di indagini dà luogo a contraddizioni, ombre e soprattutto “vittime”. Per tale ragione i Pm devono agire con una straordinaria cultura di “self restraint”, una forte capacità di elaborazione e di rispetto di regole deontologiche, maggiore, credo, di quella di cui essi sono stati finora capaci.
A tale riguardo occorre ricordare l’episodio “criminale” nel Porto di Genova, che è sempre stato al centro di indagini giudiziarie, ormai uscite dalla memoria collettiva. Il 4 febbraio 2008, Giovanni Novi, l’anziano presidente dell’Autorità portuale, era stato messo agli arresti domiciliari sulla base di tredici capi di imputazione; il mitico Paride Batini, il leader dei camalli, era stato a sua volta indagato.
Perno della vicenda era l’attribuzione del “Multipurpose” a vari terminalisti senza gara pubblica ma sulla base del parere legale di un principe del Foro (anch’esso indagato per il reato di “opinione” giuridica).
Dopo sei anni, Novi fu assolto in Cassazione perché “aveva fatto bene”. Sentiamo lo sfogo della vittima. “Io, ex presidente del porto assolto con le scuse della Cassazione. Mi hanno trattato come fossi Totò Riina. Mi hanno riempito di fango. Mi hanno impedito di andare al capezzale di mia moglie morente. Non mi sono mai arreso, ho rifiutato la prescrizione, ci sono voluti sei anni ma ora sono tornato ad essere un galantuomo, anche per la legge. Chi mi conosce lo ha sempre saputo, ma ho dovuto affrontare tre gradi di giudizio e mia moglie non è più qui accanto a me per festeggiare l’onore ritrovato”.
Al riguardo della carcerazione preventiva, è nota la posizione di certi Pm secondo i quali, dal momento che i tempi della giustizia in Italia sono troppo lunghi e i casi di prescrizione frequenti, l’unico modo per far scontare la pena e attenuare l’idea diffusa dell’impunità è quello di arrestare l’imputato prima del processo. Un’affermazione solo in parte paradossale, che in realtà mette in luce come alcuni magistrati pensano di dover ricorrere a discutibili pratiche di indagine a motivo dell’inefficienza della stessa istituzione di cui fanno parte.
Il sistema di diritto avrà fine quando la scienza scoprirà qualche sostanza che, una volta ingerita, colorerà di rosso le urine del colpevole. Per assolvere al proprio ruolo con minore sforzo, le istituzioni e le burocrazie cercano di ottenere leggi e poteri speciali. Tale richiesta è da sempre giustificata in Italia con l’esigenza di combattere la criminalità di tipo mafioso, una motivazione che non è ritenuta sufficiente in altri paesi alle prese con analoghi problemi come la Francia, gli USA o il Giappone.
La malavita pretende il pizzo a Palermo e Napoli, ma anche a Chicago, Londra, Tokyo, Marsiglia. Nessuna legge di questi paesi prevede il reato di “partecipazione esterna ad associazione mafiosa”. Non sono le leggi severe e la loro applicazione rigorosa a dare sicurezza al paese. La storia ci insegna che, dopo Mani pulite, i reati economici e politici si sono moltiplicati, ma i magistrati non si occupano di statistiche.
In ragione della mia vecchia militanza nel partito radicale di Pannella, ho sempre pensato che l’imputato dovrebbe comparire libero davanti ai suoi giudici, non solo perché ne sia assicurata la dignità di cittadino presunto innocente, ma anche – e direi soprattutto – per necessità processuali: perché egli sia su un piede di parità con l’accusa; perché dopo l’interrogatorio e prima dell’udienza definitiva possa organizzare efficacemente le sue difese; perché il Pm non sia in condizione di barare al gioco, costruendo accuse e inquinando prove alle sue spalle.
Una situazione di presunto inquinamento di prove da parte degli inquirenti è stata evocata a carico del dott. De Pasquale e del dott. Spadaro, due Pm imputati a Brescia per avere nascosto prove a favore dell’Eni. Il CSM ha stabilito che De Pasquale non ha più i “prerequisiti” dell’imparzialità e dell’equilibrio.
Per queste ragioni l’arresto prima del processo deve avere motivazioni serie e cogenti: quelle addotte nelle indagini genovesi appaiono molto deboli. Oggi l’infallibilità e la prontezza della pena sono state sostituite dall’immediatezza e dall’infallibilità della carcerazione preventiva.
Tenuto conto degli innumerevoli arresti cui sono seguite le assoluzioni, non vi sembra arrogante la posizione del sindacato dei magistrati che rifiuta la separazione delle carriere? La “separazione” è la naturale conseguenza del fatto che l’operato degli inquirenti è assoggettato al responso dei “giudicanti” al pari di qualsiasi cittadino.
Se dovessi fare una previsione, la separazione delle carriere non ci sarà, perché l’attuale classe politica è formata in prevalenza da “chierichetti”.