Gheddafi, la ragion di Stato e la ragione

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 13 Giugno 2009 - 17:47| Aggiornato il 13 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Finalmente è finita. Il colonnello Gheddafi ha levato la tenda. Ci ha lasciato, tuttavia, con una domanda che c’inquieta: era proprio necessario che soggiornasse da noi per quasi una settimana considerando che interventi memorabili non aveva da farne e non ne ha fatti? Non bastava una visitina al capo dello Stato, al presidente del Consiglio, al ministro degli Esteri come fanno tutti i normali leader in visita in Italia ed altrove? Se proprio voleva respirare un po’ di più l’aria di Roma gli si poteva organizzare un giro dove riteneva più opportuno, piuttosto che tutte quelle conferenze (compresa la disertata alla Camera dei deputati dove Fini gli ha chiuso giustamente in faccia il portone dopo due ore d’attesa), quegli incontri, quei colloqui che abilmente ha utilizzato come scenario per provocare, insultare, minacciare? Sarà che gli affari sono affari, ma che diamine, un governo dovrebbe pure porsi dei limiti nel compiacere l’interlocutore soprattutto quando si presenta come si è presentato (anche esteticamente) il Signore della Grande Jamahirya libica.Di questi tempi non si va troppo per il sottile, ne siamo consapevoli. Ma la decenza dovrebbe continuare a qualificare almeno la politica estera di un Paese che è pur sempre la sesta o la settima potenza industriale del mondo: varrebbe la stessa considerazione se fosse l’ultima, comunque. E, per restare in tema, nessuno, tantomeno le istituzioni democratiche, dovrebbero permettere a chicchessia di insultare chicchessia senza reagire. A Gheddafi è stato concesso tutto. Perfino di presentarsi con trentacinque minuti di ritardo al Quirinale, con un’ora a Palazzo Chigi, con un’ora e quindici minuti al Palazzo Madama, con un’ora in Campidoglio, con due ore alla Sapienza, mentre non sappiamo quando sarebbe arrivato a Montecitorio poiché dopo centoventi minuti il presidente ha tirato giù la saracinesca.

Non ce l’abbiamo con Gheddafi per questo, naturalmente. Lui è abituato a comportarsi così. Il malcapitato ministro degli esteri spagnolo, Miguel Angel Moratinos, nel 2005 fece dieci ore di anticamera (o antitenda, non sappiamo) per poi non essere ricevuto. Alla Marcegaglia è andata meglio: l’ha dovuto aspettare soltanto un’ora, ma si sa nel deserto i tempi sono flessibili, almeno quanto il lavoro da noi. Dal “Bolognese”, noto ristorante di Piazza del Popolo, sembra che il colonnello sia stato puntualissimo: merito delle fettuccine e del branzino che, come tutti sanno, non possono rivaleggiare con le noiosissime istituzioni. E siccome al leader libico niente fa più orrore della noia che fugge perfino circondandosi di amazzoni procaci ed armate fino ai denti, eccolo lasciarsi andare a mollezze private a scapito di rigidi impegni protocollari. Del resto, perché dovrebbe comportarsi diversamente?

Esattamente da quarant’anni, da quando guidò il Consiglio del comando della rivoluzione che depose re Idris, Gheddafi “stupisce” il mondo per i suoi colpi di scena. Un tempo erano particolarmente significativi come la cacciata degli italiani dalla Libia, compresi i morti; la dichiarazione dell’islamismo quale via per la rivoluzione nel 1973; gli accordi con l’Unione Sovietica per il rifornimento di armi nel 1975; la proclamazione della Repubblica popolare di Libia fondata sul Corano nel 1976. Poi è venuto il tempo dell’impegno internazionale a fianco del terrorismo islamico, contro l’Occidente, gli Stati Uniti ed Israele. Infine, sembra si sia calmato. Non abbiamo riscontro da parte degli oppositori interni, numerosi secondo Amnesty International che denuncia anno dopo anno violazioni dei diritti umani e condanne a morte. Il capo dei servizi segreti, responsabile dell’ “ordine rivoluzionario” a Tripoli, è stato nominato un paio di settimane fa ministro degli Esteri, per speciali meriti presumiamo.

Intanto il colonnello Gheddafi ha ottenuto dall’Italia un maxi-risarcimento per aver il nostro Paese colonizzato fin dal 1911 quella che non era la Libia, ma una regione desertica divisa in due, Tripolitania e Cirenaica, dominata dall’Impero ottomano dal 1551 a cui il nostro esercito la sottrasse; si è assicurato attraverso un Trattato di amicizia, concluso dal governo Berlusconi, ma impostato da Prodi, un rapporto di cooperazione invidiabile; si è assicurato un piano di infrastrutture per centocinquanta miliardi di dollari che, naturalmente, gestirà direttamente con i criteri di trasparenza che si possono immaginare. Non ci sorprendiamo più di tanto, naturalmente: Gheddafi da tempo  traffica lecitamente in Italia attraverso Mediobanca, dove è rappresentato da Tarek ben Ammar e anni fa entrò in maniera quasi “salvifica” nel capitale della Fiat. Gli affari sono affari. I diritti umani sono soltanto diritti umani. E il gas, come ci ricorda Scaroni, è la nostra fonte di sopravvivenza.

Tutto si spiega e tutto può essere giustificato. Tranne le lezioni quando non si hanno le carte in regola per darle. A Roma, il 10 giugno Gheddafi ha detto: “Il terrorismo? Bisogna pensare alle ragioni che hanno portato a questo fenomeno e non soltanto agli effetti”. L’11 giugno ha dichiarato: “Il partitismo è un aborto della democrazia. Io abolirei tutti i partiti e darei il potere direttamente al popolo”. Lo stesso giorno ha regalato al suo uditorio quest’altra perla: “L’attacco degli americani nel 1986 alle nostre case era terrorismo come lo sono le azioni di Bin Laden”. Il 12 giugno: “Nel mondo arabo-islamico la donna è come un pezzo di mobilio che si può cambiare quando vuoi e nessuno ti chiederà perché lo hai fatto”.

A questo signore la sinistra, nei giorni scorsi, non ha lesinato critiche, giustamente. Ma chi, fino a ieri, ha aperto la strada a Gheddafi in Italia, chi lo ha appoggiato nelle sue velleità pan-islamiche e socialiste nel corso di un quarantennio, chi ne ha esaltato perfino il “Libro verde” da lui stesso considerato come “nuovo Vangelo”, chi lo ha assecondato nelle richieste di risarcimenti? La domanda è facile facile, così come la risposta. Ma la sinistra non è abituata ad assumersi le sue responsabilità. D’Alema lo ha fatto dimostrando di essere migliore dei suoi compagni. Lo avrebbe fatto anche Aldo Moro quando, da presidente della Commissione Esteri del Senato, incoraggiò l’appeasement dell’Italia con il nuovo regime libico. Se Gheddafi ha trovato nuovi “amici” la colpa non è solo di Berlusconi che pure avrebbe potuto accoglierlo in maniera più sobria.