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Giustizia, il problema non è separare le carriere dei magistrati ma di eliminare il lungo ciclo giustizialista

Giustizia, il vero problema non è separare le carriere dei magistrati ma di eliminare gli effetti perversi del lungo ciclo “giustizialista”.

Il rappresentante dell’ANM si oppone alla Riforma Nordio che violerebbe il principio dell’indipendenza. I magistrati sono sottomessi alle “leggi” e quindi al Parlamento e al Governo che le approvano. Con il termine “Indipendenza” si intende che nessun organo dello Stato può influenzare il Pm che configura un reato oppure un giudice che emette le sentenze civili, penali e amministrative. 

La dipendenza “costituzionale” del magistrato dal legislatore ha come conseguenza che la responsabilità del malfunzionamento di una legge è anzitutto di chi la approva. 

L’attuale “Repubblica dei giudici” non deriva da un iperattivismo dei Pm, ma dalle leggi liberticide approvate nella Seconda Repubblica dalle nuove formazioni politiche. I politici naif, a partire dal 1992 e per il trentennio successivo, hanno messo sullo stesso piano i reati di terrorismo o di mafia rispetto a quelli commessi dai politici, burocrati, imprenditori e professionisti nello svolgimento di attività lecite.

La corruzione nel mondo degli affari è in genere conseguenza dell’inefficienza nel settore pubblico. Si consideri ad esempio un imprenditore che deve pagare una cambiale a fine mese e, per essere in grado di farlo, conta di incassare a sua volta un credito da un ente pubblico. In tale situazione chiunque abbia a cuore la sorte della propria azienda deve ricorrere a ogni mezzo, magari corrispondendo un quantum non legittimo all’incaricato del pagamento della fattura che gli è dovuta.

Nell’ambito di un sistema di quel tipo, propiziato dal fatto che il Tribunale obbliga il debitore a pagare dopo molti anni, quel comportamento sarà generalizzato fino a diventare sistema. Si favorisce così il contenzioso giudiziario dei grandi debitori come le compagnie di assicurazione e degli operatori che vivono alla giornata acquistando a credito senza preoccuparsi delle conseguenze dell’insolvenza.

Questo sistema non è “mafioso”, è piuttosto il risultato dell’incapacità ed inefficienza dei giudici e dei burocrati.

La battaglia contro il malaffare, in Italia è stata fatta a “tavolino”. La guerra burocratica contro la mafia ha finito per indispettire l’imprenditore costretto a produrre decine di costosi certificati ogni volta che partecipa a una gara pubblica, nonché il semplice cittadino che deve dimostrare di non avere riciclato denaro.

La creazione di Autority dedicate a contrastare la corruzione è stata avvertita dalla gente come ulteriore “poltronificio”. Quando, alcuni anni fa, una cosca mafiosa faceva un attentato sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, i carabinieri addetti chiudevano il cantiere per mesi con danni irreversibili, ma in genere non arrestavano i dinamitardi. Gli imprenditori non sanno se temere di più le mafie che li taglieggiano o le istituzioni che li dovrebbero tutelare. 

Quale attività di intelligence è stata fatta per scovare i mafiosi dalle loro tane, a parte l’uso dei pentiti? Perché gli stessi magistrati (leggasi la dichiarazione del dott. Nicola Gratteri) rilevano che le mafie di tutto il mondo stanno invadendo il nord del paese? Non è forse questa una dichiarazione della loro inadeguatezza? L’attività dei servizi segreti può ritenersi efficace nella lotta al terrorismo islamico?

L’opinione pubblica considera inadeguata l’attività delle polizie, dei pubblici ministeri e degli stessi giudici che non riescono a liberare i quartieri cittadini dalla droga e dalla delinquenza organizzata o “fai da te”.

Non si può invocare la voce del popolo per avere il “consenso” e rifiutare lo stesso verdetto nel caso di “impopolarità”. 

I magistrati non hanno una investitura “popolare” ma vincono un concorso come qualsiasi dipendente pubblico; chi di loro cerca il consenso di una “folla”, fa politica piuttosto che esercitare la “giurisdizione”. Ed è stato questo l’errore mortale commesso dagli inquirenti. 

Non sono lontani i tempi in cui il capo dei Gip di Palermo affermava che “il magistrato è parte viva del popolo italiano e dal popolo riceve i necessari impulsi per l’interpretazione delle leggi”. Del resto il pool di Mani pulite ha sempre fatto conto sull’adesione dell’opinione pubblica. I principali cronisti dell’epoca (diventati un vero e proprio ufficio stampa della Procura) si scambiavano le informazioni di prima mano ricevute da “fonti giudiziarie”.

Il capo del pool invitava (via radio) i cittadini a denunziare gli atti di corruzione di cui essi avessero notizia. Si trattava della riedizione della “legge dei sospetti” approvata durante il Regime del Terrore ai tempi di Robespierre, che imponeva la delazione per evitare la ghigliottina.

Un grave episodio eversivo di Mani pulite riguarda il decreto Biondi del luglio 1994, che favoriva gli arresti domiciliari o il patteggiamento e limitava la detenzione preventiva al pericolo di fuga. I Pm milanesi dichiararono “di non poter lavorare in una situazione di conflitto tra il dovere e la loro coscienza” e chiesero, con un comunicato letto da Di Pietro in diretta televisiva, di venire “assegnati ad altri incarichi”. Il popolo dei fax obbligò un governo imbelle a ritirare il decreto. 

L’indice di popolarità di quel periodo superò l’80%, oggi è sceso al 35%: il vento è cambiato. Bisognerà individuare le circostanze principali che hanno determinato il declino mediatico di questa importante istituzione statuale.

La prima causa di questo declino è un fatto statistico: le assoluzioni superano la percentuale del 50% (indicazioni relative all’anno giudiziario 2021), contro il 2% del Giappone. Questa situazione contribuisce alla percezione pubblica dell’inaffidabilità dell’intera Magistratura.

L’azione dei magistrati può determinare pericolosi conflitti interni tra le istituzioni. Mani pulite delegittimò il corpo della Guardia di Finanza (le cosiddette “fiamme sporche”): 80 militari furono indagati e alcuni generali arrestati. Oggi, questo corpo armato è considerato il collaboratore d’élite delle Procure.

A questo punto, dobbiamo ricordare il caso “Mori”. L’ex direttore del Ros e del Sisde, generale dei Carabinieri Mario Mori, è ora indagato dalla procura della Repubblica di Firenze per le stragi del 1993 (crollo della Torre dei Pulci e danni alla galleria degli Uffizi).

Mori ha vissuto gran parte della Sua vita difendendosi nei processi: la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, l’omesso arresto di Bernardo Provenzano, la trattativa Stato-mafia, processi finiti con l’assoluzione.

L’Arma si è schierata compatta con Mori “che ha reso lustro alle Istituzioni”. Queste ed altre indagini (come quella su Bruno Contrada), dimostrano che l’Autorità inquirente contesta l’operato dei Servizi segreti e, addirittura, configura connivenze tra gli stessi Servizi e la mafia.

Si tratta di un conflitto tra istituzioni che non ha uguali nel mondo. Non sempre è facile stabilire il livello delle commistioni tra delinquenza e polizia: spesso non si comprende bene se è la polizia a essersi infiltrata nella mala o viceversa. In certe situazioni è molto difficile segnare una netta linea di demarcazione tra il buon investigatore e il delinquente, anche perché il lavoro della polizia si basa sul rapporto con l’informatore. Come è possibile, per un magistrato, individuare rapporti deviati con la mafia da parte dei poliziotti, che magari hanno agito per evitare le ricorrenti stragi del passato e che hanno al loro attivo precedenti assoluzioni definitive su casi analoghi?

Mentre i poteri delle forze di polizia si sono con il tempo “attenuati”, la magistratura è rimasta l’unica istituzione con una forte concentrazione di potere, che sfugge addirittura al controllo sull’efficienza.

Spetta alla classe-guida di tipo politico impedire il cannibalismo tra istituzioni. 

I processi di risanamento presuppongono una effettiva epurazione, che è possibile solo se le istituzioni non si sono nel frattempo trasformate in minoranze egemoni. Non si può quindi essere certi che il pannicello caldo della “riforma Nordio” arriverà al traguardo. Tuttavia, l’Italia non è in grado di vivere per anni e anni sotto la spada di Damocle di una giustizia che può abbattersi su qualsiasi personaggio o gruppo economico, con una casistica di insuccessi insopportabile.

Il vero problema del paese, non è quello di separare le carriere dei magistrati ma di eliminare gli effetti perversi del lungo ciclo “giustizialista”. La stessa opinione pubblica chiede a gran voce, come atto liberatorio, l’adozione di leggi che consentano alle classi produttive di lavorare serenamente per costruire i futuri destini del paese.

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