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Guido Ceronetti e l’ipocrisia di “rom”: in italiano è zingari

di Marco Benedetto |17 Dicembre 2014 8:07

La Tempesta. di Giorgione. Secondo Guido Ceronetti la donna è una zingara

ROMA – “Vorrei sradicare dall’uso pubblico vulgato l’insulso Rom e ristabilire il perfetto italiano zingari” ha affermato Guido Ceronetti dalla prima pagina di Repubblica, consapevole del fatto che “si fa presto a diventare un linguista disperato o un filologo maledetto: basta tentare di sradicare dall’uso una parola sbagliata che ti procura intolleranza”.

L’ipocrisia tutta italiana che vuole esorcizzare con i nomi le colpe diffuse di intolleranza è emersa dalle inchieste giudiziarie sulle cooperative rosse alleate agli ex terroristi neri che hanno sfruttato il buonismo ipocrita per fare soldi.

Il termine Rom, Guido Ceronetti, applicato agli zingari,

“è del tutto inutilizzabile. È improprio e di uso limitato nella loro stessa lingua. Traducibile con maschio, marito, genericamente uomo, la nostra eufemizzazione forzata è, nell’ostinarsi a ruttare Rom Rom, di una madornale insipienza. Se poi viene chiamata Rom una donna (romnì) sarebbe come dire che la regina Cleopatra è di genere maschile e Venere si è riinventata gli ormoni”.

In Italia, afferma Guido Ceronetti, i primi gitani sono segnalati a Roma dal 1422

“e subito, presentandosi come cristiani perseguitati in Egitto, ottennero una bolla papale di benevolenza da Martino V). Il loro nome fu a lungo incerto, per lo più proveniva dal greco; cingàni, atzingàni, tzigani, egiziani; alla fine prevalse la derivazione dal tedesco Zigeuner, italiano zingari. Non li chiamiamo Tzigani, come in Francia, perché da noi il meraviglioso tango “Violino tzigano” evoca musica e orchestre della «dolce terra d’Ungheria » ma a un secolo dalla migrazione europea cingàni era il nome più diffuso, specie nel nord-est e nei domìni veneziani”.

Il Veneto offre lo spunto per “una piccola riflessione sul dipinto più enigmatico e d’impronta neopagana dell’arte italiana”
“La Tempesta” di Giorgione (Venezia, Accademia). Giorgione l’artista la chiamò

“La Cingàna (o L’Acingàna). Dunque l’anonima figura seminuda che sta allattando è una zingara di pelle chiara o voluta bianca ed è il cuore della visione. La radiografia ha rivelato che al posto del soldato in simmetria a sinistra c’era una precedente figura nuda, ma il soldato è là per proteggere la madre e il bambino che tetta da una sciagura incombente, alla quale la folgore in mezzo al cielo allude”.

Dal 1500 di Giorgione al giorno d’oggi:

“La spaventosa strage mondiale di mestieri ereditari, oggi con pochi superstiti ha tolto agli tzigani sedentari i redditi più onesti (calderai, ramaioli, impagliasedie, maniscalchi, fabbri di forgia, lustrascarpe, aurari o setacciatori d’oro) e accresciuto il numero dei nomadi, dediti alle attività illegali. A certe famiglie migranti la Romania monarchica non permetteva il soggiorno, nei villaggi, al di là di tre giorni (Popp-Serboianu, storico e grammatico tuttora molto autorevole). Amati dal popolo, e in maggioranza sedentarizzati, sono invece i Lautari (violinisti, mandolinisti, cembalisti), ma da noi non vengono che poveri strimpellatori, ai quali io dò vistose elemosine. Famosi erano gli Ursari, domatori d’orsi che ballano, animali bramosi di estinzione, sazi di uomo. Sui diritti delle donne, stendiamo un velo.
Terribile è la novella verghiana “Quelli del colèra” del 1884: là una misera famiglia zingara, sospettata di portare perfidamente il contagio, viene orrendamente massacrata, da un villaggio gagiò, a colpi di schioppo e d’ascia, nella sua tenda. Cadendo sotto i colpi, una ragazzina che allatta fissa con occhi indimenticabili il suo ebete assassino; occhi dove qualcosa dallo sguardo della cingàna inquieta della «Tempesta» risuscita per morire, magicamente”.

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