Harold Evans e la sua rivoluzione del giornalismo

Venticinque anni fa Harold Evans pubblicò un libro di memorie intitolato “Good Times, Bad Times”, in cui raccontava della propria esperienza come direttore del Sunday Times, finita quando Rupert Murdoch, negli anni Ottanta, comprò il giornale. Ora, Evans torna ad aprire il cassetto dei suoi preziosi ricordi per un’autobiografia più completa ed onesta: “My Paper Chase: True Stories of Vanished Times”, in cui ripercorre la propria vita fin dall’infanzia, come riporta Nicholas Lemann in un articolo apparso sul New Yorker.

Figlio di un macchinista ferroviario e di una piccola commerciante (che creò il negozio di alimentari di famiglia nel salotto di casa), Evans nacque a Manchester nel 1928, in un periodo in cui il rigido sistema sociale inglese non permetteva facilmente a un ragazzo della working-class di ottenere un’educazione decente.

Fu così che il giovane, ma determinato Evans decise di arrangiarsi da solo. A 16 anni, appena finita la scuola, scrisse a tutti i giornali di Manchester chiedendo un lavoro. Lo ottenne all’Ashton-under-Lyne Reporter, dopo un periodo di prova di tre mesi. Nel frattempo, bussò alla porta di ognuna delle quattordici università inglesi, finché non fu ammesso a quella di Durham. Certo, quanto a curriculum, non era Oxford, ma gli consentì comunque di trovare un posto al Manchester Evening News, in un’epoca in cui Manchester sembrava il centro dell’universo giornalistico con il suo ininterrotto flusso di notizie.

Nove anni dopo, divenne il direttore del Northern Echo di Darlington e ne rivoluzionò la missione, impegnandosi in quel che chiamò il “campaigning journalism”. A spingerlo a imboccare questa nuova strada furono i due anni trascorsi viaggiando per gli Stati Uniti, dove fu enormemente colpito dall’incontro con il giornalismo d’inchiesta. Notò che in America, non essendoci quotidiani a tiratura nazionale dominanti sul mercato come accadeva in Inghilterra, i giornali di provincia erano più ambiziosi e intraprendenti dei loro “fratelli” d’oltreoceano e decise di esportarne il modello, riproponendolo in terra britannica con il Northern Echo. La sua prima importante campagna fu contro l’inquinamento prodotto da un impianto delle Imperial Chemical Industries, responsabile dell’avvelenamento delle città del Nord, ma si mosse anche con coraggio per denunciare le ingiustizie e le malefatte dell’establishment locale. L’impegno nel giornalismo investigativo fu la cifra distintiva tra il suo giornale e i 25 concorrenti che si contendevano i lettori di Manchester negli anni Cinquanta e lo portò non solo a far crescere il quotidiano, ma anche a costruirsi una reputazione a livello nazionale.

Per questo, a 36 anni, gli fu offerto un lavoro a Londra come caporedattore del Sunday Times, di cui due anni dopo divenne il direttore. Si trovò così, quasi da un giorno all’altro, a capo di una redazione di giornalisti upper-class usciti da Oxford e Cambridge e presto raggiunse l’apice della sua carriera. Appena preso il comando, creò un “Insight” team – composto da quattro giornalisti e da un ricercatore – che si occupava di grandi inchieste d’approfondimento (dallo spionaggio giornalistico alle ricerche scientifiche) condotte per «esporre scandali importanti quanto insospettati e ricostruire racconti esclusivi di grandi avvenimenti», come la guerra dello Yom Kippur. Tra gli scoop memorabili prodotti dalla sua squadra di agguerriti reporter, figurano la pubblicazione dei diari di Richard Crossman (il ministro che annotò i segreti del governo Wilson), la rivendicazione di un risarcimento per le vittime del Thalidomide, che causava malformazioni nei neonati e l’indagine sulla strage del Bloody Sunday nell’Irlanda del Nord. La fama del giornale, insieme alla sua tiratura, salì vertiginosamente e ogni domenica il “Sunday Times” si preparava a far tremare il governo di turno.

Esemplare fu il caso dello smascheramento del vero ruolo della spia Kim Philby, il “terzo uomo” del gruppo di Cambridge che tradì la patria a favore dei sovietici. Perché Philby, a differenza di Burgess e Maclean, fuggiti in Urss nel ’56, era stato coperto dal governo britannico e autorizzato a fare il corrispondente per testate come l’”Economist” e l’”Observer”, finché non sparì da Beirut nel ’63, per ricomparire a Mosca? Ci vollero mesi di viaggi e ricerche per convincere qualcuno a parlare, ma alla fine saltò fuori che Philby era stato il capo della sezione sovietica dello spionaggio inglese, l’Mi6. L’uomo che doveva spiare i russi, insomma, era un loro agente. Il governo tentò di bloccare la pubblicazione della clamorosa notizia invocando interessi superiori, ma Evans respinse le pressioni, grazie all’appoggio del suo editore. Così, il 31 settembre 1967 il “Sunday Times” uscì con il titolo «Philby: ho spiato per la Russia fin dal 1933», con tanto di foto del traditore.

In questo modo, Evans creò il proprio modello di giornalismo, assolutamente innovativo per il panorama britannico: potente ma al servizio dei più deboli, letterario ma estremamente utile, autorevole ma in perenne opposizione al governo.

La sua “caduta” fu una conseguenza dell’errore commesso dai potentissimi sindacati dei giornalisti del Sunday Times, che decisero di opporsi alla rivoluzione informatica, interrompendo la pubblicazione del giornale per un intero anno e costringendo la famiglia Thomson – editrice del settimanale – a vendere la testata, che insieme al “Times” verrà acquistata nel 1981 da un intraprendente australiano di nome Rupert Murdoch. Murdoch convinse Evans a accettare quella che sembrava una promozione e a passare al “Times”, dove gli fu resa la vita impossibile finché non rassegnò le dimissioni.

Evans se ne andò allora negli Stati Uniti, dove ha trascorso l’ultimo quarto di secolo della sua carriera. Lì ha sposato Tina Brown, allora direttrice del New Yorker, ha diretto magazine importanti come Traveler e Random House e lavorato per l’U.S. News & World Report. Il suo cuore, però, non ha mai lasciato l’Inghilterra né ha dimenticato gli anni d’oro del “Sunday Times”: la vera conquista del ragazzino del Nord, figlio di un macchinista dei treni.

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