Due fantasmi rendono le notti di Silvio Berlusconi ancora più insonni di quanto non lo siano già normalmente.
Per primo gli appare quello di Rupert Murdoch, il collega tycoon che gli sta facendo pagare con gli interessi una serie di sgarri subiti negli anni. E anche in Australia tendono a non sopportare gli oltraggi: cominciò nel 1998, quando il governo di sinistra parlava di conflitto di interessi tra il ruolo politico di Berlusconi e il ruolo di azionista di controllo di Mediaset & affini. Berlusconi fece venire in Italia Murdoch, fece intendere che voleva vendergli tutto, ottenendo una disperata richiesta da nientemeno che Massimo D’Alema e Giovanna Melandri: Mediaset deve restare italiana! e Berlusconi si inchinò alla volontà popolare. (Ancora di recente lo ha ricordato: volevo vendere, proprio la sinistra me lo ha impedito).
Con il suo spirito pratico lombardo Berlusconi forse pensava di avere compensato il disturbo di Murdoch comprando da lui un mega yacht usato.
Errore di prospettiva tutto italiano. Se Berlusconi ha più di una ragione se si sente un fenomeno perché oggi è il padrone della politica italiana, dopo averla governata dall’esterno per anni, Murdoch è un signore che è stato capace di piegare ai suoi voleri personaggi come Ronald Reagan e Margaret Thatcher, di andare d’accordo con il Governo della Cina rossa. È forse il più bravo e geniale editore del mondo. È l’unico vero editore globale, avendo costruito il suo impero sulle ceneri di un giornale inglese semi fallito, il Sun, da lui trasformato in fonte di milioni di sterline di utili.
La storia di Murdoch in Italia ricorda un po’ quella dei normanni nel nostro meridione: vennero chiamati, quasi mille anni fa, come dei mercenari. Piacquero loro il clima e la natura e nel giro di un paio di generazioni diventarono i padroni del Sud.
Chiamato da Berlusconi per quello scherzetto, Murdoch ha capito che il mercato italiano era promettente e ci si è installato. Si è impadronito della pay tv satellitare italiana, che in mani italiane aveva perso per anni centinaia di miliardi di lire all’anno, trasformandola nel successo che è oggi Sky; poi Mediaset gli ha sparato nelle gambe il calcio sul suo digitale terrestre e poi, peggio di tutto, il Governo italiano ha raddoppiato l’Iva sulla pay-tv. Come stupirsi che Murdoch ce l’abbia con lui? Più che legittimo il sospetto che schieri i suoi giornali contro di lui, approfittando dei liquami della rissa in famiglia scatenata dalla moglie Veronica.
Niente di politico: Murdoch non è di sinistra, i suoi giornali sono tutt’altro che di sinistra, i giornalisti del Times e del Financial Times (che non è di Murdoch ma che ha attaccato Berlusconi per primo) sono tutt’altro che comunisti, anzi, nell’insieme sono inesorabilmente di destra. Certo sono un po’ snobbetti e prevenuti contro il tipo salesman brianzolo che Berlusconi incarna tanto bene. Non c’è quindi bisogno di nessuna spinta né ordine (e francamente, pensare che Murdoch arriva a dare ordini anche nella redazione del Financial Times è un po’ tirata per i capelli) per indurli a scrivere quel che hanno scritto. Se ci guardiamo dall’esterno, lo spettacolo offerto è quanto meno imbarazzante.
Certo non sono né comunisti, né prezzolati. A maggior ragione, proprio per questo, sono gente pericolosa, giusto non dormirci la notte.
Il fantasma che spaventa di più Berlusconi è però quello del presidente americano Barack Obama. In fondo, può pensare Berlusconi, con Murdoch alla fine ci si metterà d’accordo. Siamo imprenditori, siamo ricchi, abbiamo la stessa età, siamo fatti per intenderci. Probabilmente se pensasse davvero così sbaglierebbe, ma un fondo di ragione può avercelo.
Con Obama, invece, la paura è più che giustificata. Al di là del santino neo kennediano che ne è stato fatto in Italia, Obama è un giocatore durissimo, cresciuto alla spietata scuola della politica di Chicago, la città più violenta d’America e in cui anche la lotta politica segue regole che non sono quelle bizantine della costa orientale e meno che mai quelle di un consiglio comunale italiano. Tutto vero quello che si è detto e scritto sugli ideali, le grandi strategie, l’essere profondamente di sinistra di Obama. Ma Obama ha anche imparato, nella città di “The Jungle”, le regole della politica, che non sono quelle di un collegio di Orsoline.
Che sia un duro nel gioco politico basta vedere come ha scaricato il suo compagno di partito Rod Blagojevich, infilatosi da solo in un mare di guai ma finito nel mirino della procura della Repubblica locale proprio in quanto compagno di partito di Obama. Per convincersi che sia un duro nella gestione, basta vedere come ha affrontato i finanzieri di Wall Street e i loro stipendi, l’industria dell’auto e anche i pirati somali.
Umanamente ha tutte le ragioni per detestare Berlusconi, che gli ha dato pubblicamente del negro e non in una serata a Villa Certosa, ma in Russia, in una conferenza stampa internazionale sghignazzando sul colore della pelle di Obama con un altro campione di tolleranza razziale, il presidente russo Medvedev.
Ma anche sul piano politico Obama ha molte ragioni per infliggere all’Italia di Berlusconi qualche umiliazione. Berlusconi si è appiattito per anni su Bush, in modo totale e assoluto, senza avere l’aplomb (che è tutto dire) dell’inglese Tony Blair; inoltre, insiste nel volere essere il grande mediatore con lo zar russo Vladimir Putin. E anche questa cosa è fatta per non piacere agli americani, che il gioco con la Russia lo vogliono condurre loro, con le loro mani, come serve alle loro strategie.
L’Italia, per gli americani, dopo la fine dell’impero russo, è un paese marginale. Per chi governa l’Italia, che è colonia americana (meglio dell’America che di chiunque altro, ma sempre colonia) la legittimazione americana è fondamentale e anche per questo Berlusconi si buttò subito nelle braccia di Bush, certamente non credendo una parola delle fandonie sulla guerra al terrore ma sapendo che se non si fosse schierato con il padrone di Washington, avrebbe avuto vita ben più difficile, in Italia e fuori.
E Obama non ha fatto certo mistero della sua freddezza verso Berlusconi e l’Italia. È stato in Europa, ai primi di aprile, è andato dappertutto tranne che in Italia, a Londra ha visto anche gente di Stati meno importanti dell’Italia ma non Berlusconi. Una riprova della freddezza dei rapporti tra i due viene anche dal noto episodio che tanto irritò la regina Elisabetta, quando Berlusconi chiamò con un tono di voce non da corte il presidente americano. “Mister Obama” gli disse, invitandolo a posare assieme per una foto ricordo. Obama accettò, anche perché con lui e Berlusconi posarono praticamente tutti gli altri capi di governo presenti.
Ma non sono passati a chiamarsi col primo nome, che per gli americani è il nostro tu.
In quell’occasione, Berlusconi ha strappato a Obama, un invito ad andare a Washington, per parlare del G8 (della cui nuova location il povero Obama non ha bene contezza) ma, a quel che si legge, finora la conferma definitiva dell’incontro alla Casa Bianca non è arrivata. Intanto Obama va a Riyad, in Arabia Saudita, a vedere re Adbullah (indicativo della dipendenza americana dai sauditi fu l’inchino di Obama davanti al sovrano a Londra), va al Cairo, va in Germania. Cosa gli costerebbe un piccolo detour su Roma, giusto una toccata e fuga, tanto per consentire a Berlusconi di non parlare più di lui come “mister Obama”, ma “il mio amico Barack”, come faceva con ”l’amico George”.
E invece nulla, solo un glaciale silenzio.
Nemmeno con la melatonina uno normale riuscirebbe a dormire.
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