I militari italiani a Kabul: la lezione di Anna D’Amato e Stefania Giannattasio a Berlusconi, Prodi, Bossi, Di Pietro & gli altri

Massimiliano Randino

Sei morti sono troppi per cedere alla tentazione di giocarsi questo dramma in chiave di politica interna e di scrutare e accarezzare il pelo ai sondaggi. Sei morti impongono serietà: o si va via dall’Afghanistan o si resta. La tattica del dichiarare vittoria e preparare i bagagli non funziona più: sei morti sono troppi per crederci davvero.

Due donne, una mamma che ha perso il figlio, una vedova che ha perso il marito, hanno dato una lezione a tutto quel branco di politicanti che cerca di sfruttare il sangue dei loro uomini caduti.

A scrivere queste parole vengono i brividi. Sono due donne del Sud: Anna D’Amato, mamma del caduto Massimiliano Randino, caporal maggiore e da Stefania Giannattasio, vedova di Roberto Valente, un altro dei parà uccisi. Ha detto Anna: «Mio figlio è un eroe. È morto facendo il proprio dovere». Ha detto Stefania: «Mio marito era un parà, io sono orgogliosa di lui».

Mentre tutti corrono a fare i furbi, queste due donne fanno saltare gli stereotipi degli italiani fifoni e vigliacchi, Madre Coraggio contro Caporetto. Ben vero è che la Folgore rappresenta uno dei simboli più importanti dell’eroismo militare italiano, ma la tv ci ha abituato a un’immagine piagnona di cui Anna e Stefania sono il riscatto inatteso.

Questa guerra così lontana dai nostri confini non si spiega nei termini tradizionali della difesa del suolo patrio. Oggi gli interessi della patria si definiscono ben più in là del Piave e la partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan fa parte di quel complesso di alleanze, che ha  l’America al centro, grazie alla quale oggi noi italiani godiamo di una condizione complessiva immensamente superiore a quella dei nostri genitori e nonni e anche degli abitanti di quei paesi che di altre alleanze facevano parte.

Per queste ragioni, che non sono frutto del calcolo ma della coerenza, i Governi degli ultimi anni, sia quello di destra guidato da Silvio Berlusconi, sia quello di sinistra, guidato da Romano Prodi hanno aderito alla missione afghana. Non sarebbe forse più decoroso se i due, Berlusconi e Prodi, si presentassero agli italiani, a reti unificate, a spiegare che lì siamo e lì dobbiamo restare?

Ma forse l’8 settembre non solo è troppo vicino nel calendario alla data della strage di Kabul, ma è troppo radicato nel cuore dei governanti italiani.

Sei morti sono troppi per fuggire. L’Italia piange i suoi soldati, subisce lo choc del lutto, dal Parlamento alle piazze agli stadi di calcio si ferma a commemorare, trattiene il respiro come quando si incassa un colpo duro. Ma apprende, nel più doloroso dei modi, che questa guerra in Afghanistan o la si perde o la si vince: una terza e più morbida via d’uscita, anche a chiamarla “exit strategy”, non c’è. Tradotto sul campo di battaglia, o ci si ritira oppure si mandano altri elicotteri e blindati, non solo per proteggersi ma per attaccare. Lo apprende il governo, lo apprende il Parlamento, lo apprende la gente.

Sei morti sono troppi per illudersi. Illudersi che la questione sia se valga o no la pena di morire per Kabul. Morire si muore, la realtà parla con drammatica e violenta nettezza. La questione è se morire inutilmente, cercando di combatterla il meno possibile questa guerra, oppure se morire cercando di vincerla. Cercare di vincerla vuol dire guardare in faccia la situazione oggi sul terreno afghano. C’è chi valuta i talebani capaci di controllare la metà del paese e di infiltrarsi nell’ottanta per cento del territorio. Altri fanno altre stime, più pessimistiche o ottimiste. Certo è che il terreno afghano va riconquistato se in Afghanistan si vuole restare. Restare così non ha senso, significa solo esporsi allo stillicidio di morte. E riprendersi il terreno vuol dire più soldati, americani e della Nato, italiani, tedeschi, inglesi e degli altri paesi impegnati.

Roberto Valente

Sei morti sono troppi anche per un’Italia cinica, abituata alle decine di morti sulle strade in un normale week end di alcol, droga e velocità.

Sei morti sono troppi per riguardare solo l’Italia. Negli Usa stanno discutendo se e quanti soldati e mezzi ancora inviare in Afghanistan: la strage degli italiani spingerà l’amministrazione Obama a rafforzare il contingente e a chiedere agli alleati di fare altrettanto. Conquistare le menti, il favore della popolazione è necessario, ma si è visto che non basta garantire agli afghani un’elezione per il presidente. Ci vuole di più: dar loro sicurezza controllando il terreno. Conquistare il terreno e conquistare il consenso non sono uno l’alternativa dell’altro, sono la stessa cosa.

Sei morti sono troppi per cedere alla tentazione. Tentazione di giocarsi anche questo dramma in chiave di politica interna. Tentazione di scrutare e accarezzare il pelo ai sondaggi. Sei morti impongono serietà: o si va via dall’Afghanistan o si resta. La tattica del dichiarare vittoria e preparare i bagagli non funziona più: sei morti sono troppi per crederci davvero.

L’8 settembre 1943, migliaia di soldati, abbandonati dal re, dal governo e dagli alti comandi, hanno dato il via al riscatto dell’Italia. Oggi sono due donne che più di tutti avrebbero diritto di piangere e recriminare. Mettono in un angolo i politici coprendo di vergogna un comportamento che in tempi un po’ più politicamente scorretti sarebbe stato definito da donnicciole. Forse i due schieramenti hanno ancora tempo per un segno di onestà e trasparenza verso noi cittadini.

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