IL COLORE DELLA PELLE

La Stampa pubblica un commento di Antonio Scurati sugli episodi di razzismo in Italia intitolato ”Milano, Africa”. Lo riportiamo di seguito:

”Nero è il colore della pelle ma nero è anche il colore della paura. Lo accertiamo in questi giorni. Le cronache ci riferiscono di ragazzi italiani, che parlano la stessa lingua immiserita dei loro connazionali, che vestono in ossequio alle stesse mode volgari dei loro conterranei, che hanno gli stessi atteggiamenti un po’ tracotanti dei loro coetanei ma che all’improvviso si ritrovano vittime di una ferocia razziale solo perché, figli di immigrati africani, ne conservano oramai soltanto il colore della pelle.

Fino a ieri, quando la società era ancora tormentata, ma anche vivacizzata dalla divisione in classi, la cultura faceva la differenza: chi apparteneva a una certa classe aveva certe idee, costumi, giudizi, comportamenti, una certa visione del mondo. E li rivendicava come segno di distinzione: il conflitto di classe si elaborava anche attraverso il conflitto di gusto. Oggi, quando tutto questo si è dissolto, rischiamo che a dividerci rimanga soltanto il colore della pelle. O altri simili trascurabili dettagli.

Ciò vale nella buona come nella cattiva sorte, nell’attrazione o nella repulsione, nella paura come nella speranza. Diciamoci la verità: se non fosse di pelle nera, non sarebbe forse Barak Obama un liberal come tanti altri? Il suo futuro, e dunque il futuro dell’America e del mondo, verrà deciso, nel bene come nel male, da una questione razziale. Proprio come il futuro di quei ragazzi italiani che vivono a Milano attorno a via Zuretti, che vestono come italiani, parlano come italiani, vivono come italiani ma si sono improvvisamente scoperti neri di pelle e di fatto.

In una società come la nostra, impaurita, spaventata, talora spesso terrorizzata, in una società in cui la speculazione sulla paura paga cospicui dividendi elettorali, finanziari, mediatici, in cui c’è tutta un’economia, tutta una politica, tutta una comunicazione che prospera sulla paura, sulla sproporzione tra rischi percepiti e rischi reali, in questa società in cui l’unica cosa di cui si dovrebbe veramente aver paura è la paura stessa, in questa società che ha paura dell’instabilità del villaggio globalizzato ma nella quale la paura è la principale fonte d’instabilità globale, in questo mondo curvo su se stesso come un serpente che si morde velenosamente la coda, da queste parti forse il razzismo rimarrà un male irriducibile.

Sì, perché quando hai paura perdi lucidità, perdi discernimento, quando hai paura la vista si annebbia, l’orizzonte si ottenebra e allora tutto ciò di cui senti di aver bisogno è un segno distintivo chiaro e netto, un’anomalia vistosa che si trasformi in stigma, un volto estraneo che funga da bersaglio. E cosa c’è di meglio, di più facile, di un uomo nero messo a contrasto con un uomo bianco? Quando un’intera popolazione ha paura si trasforma in massa, poi la massa in folla, poi la folla si solleva in turba. E il diventare folla della turba è una sola cosa con il richiamo oscuro che la riunisce e la mobilita, il richiamo all’azione che spinge per uscire da quell’insopportabile confusione, dalla notte della paura in cui tutte le cose si dissolvono in ombre e tutte le ombre sono minacce di morte. La folla sollevata in turba ha bisogno dell’azione ma, preda del suo stesso parossismo, non può agire sulle cause naturali, sociali, economiche. La sua brama di uscire dal buio cerca allora una causa accessibile, quale che sia. E allora il nero della paura trova il nero della pelle. La folla sollevata in turba dalla paura, impotente a ogni azione efficace, si risolve per la persecuzione.

È questa una dinamica sociale ben nota, osservata mille volte, eppure ritorna sempre, aggiornandosi a ogni nuovo cambio di stagione. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, il razzismo, la discriminazione violenta e arbitraria nei confronti di individui o gruppi sulla base di caratteristiche spesso esteriori come il colore della pelle, si sviluppa proprio in quelle società che smarriscono le loro differenziazioni interne, le loro articolazioni, le loro gerarchie. La persecuzione razziale è tipica di società come la nostra che vivono nell’orizzonte asfissiante di un pensiero unico, di un eterno presente, di un’omologazione di massa. C’è una circolarità viziosa tra la perdita di ogni differenziazione significativa all’interno di una comunità e attitudini persecutorie nei confronti del «diverso». È quando tutti si sentono tristemente grigi che dalla folla si leva il grido: «Dagli al negro!».

Va così quando la paura offusca lo splendore sensibile del mondo”.

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