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Il Premier eletto o Premierato non serve, parola di un magistrato di destra: per la stabilità politica basta una legge elettorale

Il premier eletto o Premierato non serve: per la stabilità politica è sufficiente una legge elettorale che restituisca il potere di scelta effettiva al popolo, sostiene Salvatore Sfrecola.

Sfrecola, già presidente di sezione della Corte dei Conti, è stato capo di gabinetto di Fini ai tempi di palazzo Chigi. Non è sospettabile di idee di sinistra. Lo ha scritto nel suo blog, Un SOgno Italiano.

Una consistente dose di ingenuità mista ad una inadeguata individuazione delle ragioni autentiche dei limiti del sistema politico sono alla base delle proposte di cambiare le regole dei rapporti tra governo e Parlamento, sia che si proponga di passare ad una Repubblica Presidenziale o, più esattamente, semipresidenziale, alla francese, sia che si opti per il Premierato.

In ogni caso l’idea è quella di attribuire al popolo l’elezione diretta del Presidente della Repubblica o del Presidente del Consiglio. Al fondo la ragione, inespressa ma evidente, è quella di ritenere, da parte dei proponenti, che nel nuovo sistema il Capo dello Stato o il Presidente del Consiglio sarebbero scelti dagli elettori dei partiti che detengono la maggioranza.

Abbandonata, pare, la proposta di presidenzialismo, riforma cara ad una parte della destra, la Premier Meloni opta per il “Premierato” che ancora non è chiaro se si vorrebbe attuare con una riforma costituzionale o con legge ordinaria come propone qualcuno, possibilità della quale molto dubito in quanto l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, sia pure in forma di mera indicazione presidenziale di nomina, collide con quanto previsto dall’art. 92. comma 2, della Costituzione secondo il quale “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”.

Sembra, pertanto, arduo, a Costituzione vigente, immaginare una nomina vincolata dal voto popolare, un voto sempre più limitato in ragione della scarsa partecipazione rilevata nelle ultime elezioni la quale “è dovuta al venir meno del ruolo dei partiti”, come ha osservato il professor Cesare Mirabelli, Presidente emerito della Corte costituzionale, in un’intervista a La Nazione.

Con la conseguenza che il Presidente del Consiglio che si intende rafforzare verrebbe eletto da una parte dell’elettorato, intorno al 30 per cento, anche se sulla base di un non meglio specificato sistema elettorale che assegni il 55% dei seggi al partito o alla coalizione vincente. Ipotesi che sembra ricalcare l’unico esempio conosciuto, quello israeliano tra il 1996 e il 2001, fallito perché “provocava forte instabilità, dentro una forte rigidità sistemica”, come ricorda Francesco Clementi (“Il Presidente del Consiglio dei ministri -mediatore o decisore?”, Il Mulino, 2023, pp. 236, € 16,00).

Qualcuno ha richiamato l’esperienza del “Sindaco d’Italia” per trasferirla dal piano locale a quello nazionale, senza considerare la diversità dei due livelli istituzionali, assolutamente non comparabili, per le attribuzioni e per il ruolo del Capo dello Stato a garanzia dell’equilibrio nazionale dei poteri che a livello regionale o locale non esiste.

La proposta va dunque ripensata prendendo in primo luogo atto che i problemi del nostro ordinamento sono essenzialmente conseguenza della estrema modestia della classe politica che si alimenta sulla base di una legge elettorale che non esalta il momento della scelta dell’elettore, proprio delle democrazie liberali. La proposta di cui si parla, che ancora non si conosce nei dettagli, vorrebbe stabilità di governo, impossibilità di ribaltoni politici o manovre di palazzo, stabilità della maggioranza parlamentare.

“Penso – ha detto Mirabella nella ricordata intervista – che un buon premio di maggioranza in una buona legge elettorale risolverebbe da sola tutti questi problemi”. Ma una buona legge elettorale presuppone, a mio giudizio, collegi uninominali nei quali l’elettore possa scegliere tra le candidature proposte dai partiti, in questo modo rinforzando il ruolo del Parlamento dove si forma la democrazia liberale.

Anche il tema del c.d. “ribaltone” va visto sotto il profilo delle scelte elettorali che condizionano l’eletto il quale non lascerebbe il partito con il quale si è presentato agli elettori se non nel caso in cui avesse maturato la convinzione che il cambio di posizione è conforme alle scelte dell’elettorato, cioè che i voti che ha ottenuto per sedere in Parlamento sarebbero stati dati anche nelle ipotesi di un cambio di casacca.

Scelta da sempre invisa ai detentori del potere nei partiti che vorrebbero venisse meno la norma (art. 67 Cost.) la quale stabilisce che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Significa che il parlamentare eletto non risponde a nient’altro che alla propria coscienza, libero da legami e obblighi anche riguardo la forza politica di appartenenza. Una regola della democrazia rappresentativa, già presente nell’art. 41 dello Statuto Albertino.

Leggo nell’ultima di copertina del libro di Francesco Clementi innanzi richiamato una frase che fa riflettere “senza conoscere le istituzioni, non esistono salde e praticabili libertà”. È evidente, dunque, che una buona legge elettorale che consenta di valorizzare la scelta dell’elettore costringerebbe i partiti a selezionare i candidati sulla base dell’esperienza politica e della loro professionalità, in tal modo garantendosi un rilevante risultato elettorale.

Con un sistema elettorale a collegio uninominale sarebbero eletti quanti presentano un programma in sintonia con l’elettorato, e la forza dei partiti sarebbe non già nelle stanze delle segreterie nazionali ma nei gruppi parlamentari, come nel Regno Unito dove il Re incarica di formare il Governo il capo del partito di maggioranza nella Camera dei Comuni.
 
 

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