Immigrazione, quali effetti sul futuro dell’Italia? L’art. 10 della nostra Costituzione prevede il diritto d’asilo secondo le norme del diritto internazionale e dei relativi trattati.
Peraltro, numerosi padri costituenti avevano in mente lo “straniero perseguitato” dai regimi “totalitari”, come l’agitatore operaio che venendo in Italia troverà difesa del suo diritto d’asilo” oppure “il socialista spagnolo che fugge dal regime di Franco”.
Secondo Gabriella Nobile, “affermare che i perseguitati politici hanno il diritto di rifugiarsi nel nostro Paese è cosa nobilissima”. Ma un tale diritto non può venir concesso senza alcun limite.
A me piacerebbe vedere emendato l’articolo in questione, nel senso che il diritto di asilo sia subordinato alle restrizioni della legge sull’immigrazione. Un paese povero come il nostro ha ben il diritto di imporre qualche limitazione, quando paesi ricchi e prosperi quali gli Stati Uniti d’America pongono tanti ostacoli alla immigrazione anche di rifugiati politici”.
Ai nostri giorni i “rifugiati” sono le “masse informi” che abbandonano il proprio paese a causa di guerre, invasioni, rivolte, catastrofi naturali o perché omosessuali che rischiano la pena di morte. Su queste basi giuridiche, circa i 2/3 dei cittadini africani e medio orientali hanno il diritto di entrare in Europa.
Irakeni, palestinesi, israeliani, vivono una situazione di guerra permanente o ricorrente. Gli iraniani sono soffocati da un regime teocratico che non riconosce i principali diritti civili. Le guerre tribali del centro Africa determinano terribili genocidi.
Terremoti di massimo grado spazzano via antichi centri di civiltà. La Russia di Putin, che ha determinato le condizioni di espatrio degli Ucraini, manda eserciti mercenari per combattere il terrorismo in Siria e protegge in Libia una fazione militare antigovernativa che paga l’intervento a suon di dollari. Gli Stati “canaglia” hanno capito di poter destabilizzare l’Europa attraverso guerre che determinano fughe di massa.
Anche i cittadini cinesi subiscono restrizioni alle libertà democratiche. Tuttavia, nessun paese è disposto a concedere asilo al cittadino di Pechino che cerca di sfuggire alla polizia politica, perché la Cina detiene oltre il 50% del debito sovrano americano e perché il presidente XI ha dimostrato al mondo che si può essere capitalisti ancor più efficienti, proprio grazie ad un regime nel quale le decisioni sono prese da un partito unico, senza riguardo per i sondaggi d’opinione.
Esistono infine milioni di individui che non hanno il diritto d’asilo. Nel mondo attuale non ci sono più le navi inglesi che trasferivano nei campi di cotone della Virginia i poveri tapini rapiti dai negrieri arabi.
Restano solo i negrieri arabi che esercitano il business dell’emigrazione e impiegano i capitali accumulati per rifornire gli arsenali militari degli stati del terrore, protetti dalle forze di polizia dei paesi che una ottusa classe dirigente di americani e francesi pensava di riconvertire alla democrazia.
Insomma, l’emigrato “economico” è quello più bisognoso di aiuto che viene generalmente respinto dai paesi del benessere. La “macchina produttiva” occidentale deve disporre di mano d’opera specializzata ed esclude, relegandole al sottosviluppo, le masse prive di competenze tecnologiche, ritenute “parassitarie”. Non si tratta di una discriminazione religiosa o etnica, bensì di “razzismo economico” generalmente accettato.
L’economa globale impone all’Europa di rivedere in radice gli stessi principi etici sui quali si basa il diritto d’asilo. L’ideologo catto-comunista contrario a porre limiti all’immigrazione, è ormai fuori dalla storia e ha perso i contatti con la propria base elettorale.
Passando a questioni pratiche, le procedure di selezione dei rifugiati, richiedono di individuare gli aventi diritto rispetto ai migranti economici, ai delinquenti comuni, ai terroristi infiltrati e ai gruppi mafiosi che vogliono occupare i nostri territori.
Non si tratta di procedure rapide e standardizzabili, bensì di ricerche documentali costose e complesse. Il Trattato di Dublino che attribuisce la competenza della selezione alle nazioni d’arrivo, penalizza l’Italia, la Spagna e la Grecia. L’idea della Meloni di costituire un centro accoglienza in Albania, non incide sul destino degli aventi diritto e non può essere demonizzata a priori.
Restano da considerare i problemi dell’integrazione economica e sociale. Sul piano economico si pensava che i migranti avrebbero potuto occupare i posti di lavoro abbandonati dalle nuove generazioni di italiani, specialmente nei comparti a bassi salari, come l’agricoltura e i lavori domestici.
In questi casi, le regole del mercato richiederebbero il trasferimento della produzione nei paesi in via di sviluppo. Ad esempio, il salario di un raccoglitore di pomodori è limitato dai prezzi di tale prodotto. La scelta economica più corretta sarebbe quella di chiudere i nostri stabilimenti e insediarli in Tunisia o Marocco.
Tale scelta, che riguarderebbe tutti i settori produttivi a valore aggiunto molto contenuto, diverrà obbligata con l’approvazione di un salario minimo generalizzato.
Questi problemi non sono presi in considerazione dalla classe politica e dai sindacati. I partiti decidono sulla base degli effetti dell’immigrazione rispetto al ritorno elettorale: le formazioni di sinistra pensano, a torto, che gli immigrati voteranno per loro. I sindacati sperano di aumentare il numero delle tessere per recuperare le defezioni degli ultimi decenni.
Ancor più gravi sono i problemi di integrazione sociale. Una società che diventa multietnica, presuppone un sistema basato su una forte identità nazionale. E’ cioè necessario che i nuovi arrivati si sentano parte integrante del paese ospitante e abbandonino la “cultura” conflittuale.
Quando l’integrazione non si realizza neppure nella seconda o terza generazione (come avviene in Francia), è inevitabile che larghi strati della popolazione siano colpiti da un pesante senso di “claustrofobia”.
Se una persona della mia età, a distanza di una ventina d’anni, torna a visitare Londra o Parigi, non troverà cambiamenti soltanto nel paesaggio, nell’architettura, nei luoghi di culto, nei locali pubblici. Troverà qualcosa di più: sono gli inglesi e i francesi d’oggi, ad aver perduto il proprio “carattere” nazionale.
E’ forse “razzismo” pretendere di difendere le radici della nostra civiltà, rispetto ai fenomeni d’immigrazione incontrollata?
L’Europa è ormai considerata l’emisfero della paura: la gente si sente abbandonata e considera con malcelato disprezzo la stessa classe imprenditoriale che non ha più “patria” e crea le condizioni di una disoccupazione cronica.
Le classi sociali più umili del nostro paese non possono allontanarsi dal territorio: sono proprio questi “diseredati”, ad avvertire la mancanza di protezione dello Stato.
I risultati elettorali di paesi come l’Olanda ci fanno presagire una nuova Europa delle patrie. Una cosa sola è certa: se la tradizione occidentale, con tutte le conseguenze che essa implica per la libertà e la dignità umana, verrà meno in Europa, dovranno trascorrere molti, molti anni, prima che possa risorgere in qualche altro luogo.