Un camion carico di esplosivo, guidato da un kamikaze è esploso vicino a una moschea, frequentata da fedeli di etnia turkmena e di religione sciita, in una zona residenziale a Taza, nel nord dell’Iraq, causando decine di morti e centinaia di feriti, almeno 200.
Secondo la Cnn i morti erano, alla mezzanotte locale, 67; secondo il New York Times erano 68; per il sito internet del Wall Street Journal, che pubblica l’agenzia di stampa Ap, sono 63. Una cosa è certa: che il numero dei morti è destinato a salire, perché ancora non è terminato lo scavo delle macerie sotto le quali è probabile siano rimaste intrappolate altre persone.
La città di Taza è collocata a sud di Kirkuk, capitale di una zona ricca di petrolio e divisa da profondi odi razziali tra curdi, che sono la maggioranza, arabi, il cui numero è molto cresciuto negli anni delle pulizie etniche di Saddam, e turkmeni.
L’attentato ha seguito di poche ore un incontro tra il primo ministro iracheno, Nuri Kamal al-Maliki, e esponenti della comunità turkmena a proposito del contenzioso territoriale (con i diritti di sfruttamento petrolifero che ne derivano) tra i vari gruppi etnici.
Maliki aveva invitato le differenti etnie a cooperare, nella certezza che non ci sarà un rincio nel ritiro delle truppe americane. Probabilmente vi sono parti della società irachena, in particolare gli arabi sunniti, che sono minoranza, che temono rappresaglie econtro pulizie etniche da oarte della maggioranza sciita, per secoli sottomessa dai sunniti, una volta che gli americani fossero partiti.
Il ricorso alle bombe può apparire come uno strumento per indurre gli americani, di fronte a un aggravarsi della sicurezza dell’Iraq, a rinviare il ritiro delle truppe: Non sono state evidentemente considerate le ferree regole della politica interna americana.