Italia e rischio Orban. L’Italia, che nonostante tutto sta marciando ed è invidiata, per cambiare passo e trasformarla occorre che Giorgia Meloni -tirandosi dietro il suo partito- abbandoni linee politiche che vengono dal passato italiano di prima e seconda Repubblica e cominci a innovare laddove innovare è indispensabile. Solo così riuscirà a conservare il consenso che ha conquistato.
da Italia Oggi
È la politica il problema e la sua soluzione. L’Italia dei nervosismi deve scegliere, ancora una volta, la forza della ragione, in base alla quale non c’è motivo di non restituire alla ragione il ruolo preminente che le spetta in questo tempo difficile, nel quale la prospettiva elettorale aggrava ogni questione, anche marginale.
Partiamo innanzi tutto dalla situazione parlamentare: tra Noi Moderati (10), Forza Italia (44), Lega (66) e Fratelli d’Italia (118), la maggioranza conta 238 seggi su 400 alla Camera dei deputati. Al Senato 116 su 206. Un ribaltone potrebbe verificarsi nel caso in cui o Forza Italia o Lega si disimpegnassero dalla coalizione di governo e gli togliessero la fiducia. L’idea -credetemi- è peregrina e per due motivi: il primo, in ordino logico-istituzionale, si chiama Sergio Mattarella. Egli non è Vittorio Emanuele III né Oscar Luigi Scalfaro né per certi versi Giorgio Napolitano.
Mattarella di fronte a una rottura della maggioranza non potrà non onorare l’obbligo costituzionale di accettare una convocazione delle elezioni generali. Infatti, questa maggioranza ha ottenuto un voto politico da parte dell’elettorato nazionale e una sua rottura non potrebbe essere sanata da un accrocco disomogeneo delle minoranze (peraltro disunite) trasformate dal salto della quaglia di un partito in maggioranza.
Il secondo elemento di reale deterrenza è che il partito che rompesse la coalizione ed effettuasse un passaggio all’opposizione ha di che seriamente temere dal voto politico.
Non è che non ci siano questioni politiche all’interno della maggioranza, basti vedere il ruolo svolto da Matteo Salvini nella recente protesta degli agricoltori. Non c’è però un dissenso così sostanziale da poter suggerire a Salvini di rompere il patto di coalizione. Lo sa anche lui, a dispetto di tutti i giri di valzer che compie –(comprese le scivolate fuori della pista da ballo) che la vita politica nazionale della Lega è strettamente connessa alla presenza nel governo e a tutto ciò che in termini di benefici di potere questo comporta.
La ragione, peraltro, non può omettere o accantonare questioni vitali nelle quali, almeno sino a ora, Giorgia Meloni si è mossa con piena consapevolezza del suo ruolo e del ruolo dell’Italia. Risultano però molto preoccupanti i movimenti che sembrano profilarsi nel Partito conservatore europeo. L’annunciata adesione a esso di Orban e della sua formazione politica e di Zemmour, il politico francese più volte condannato per istigazione all’odio razziale, non ne costituisce un rafforzamento, anzi mette in discussione proprio quel ruolo che Giorgia Meloni s’è sin qui conquistato. Manfred Weber, il presidente del Partito popolare europeo ha già dichiarato, infatti, che non accetterà alcuna alleanza post-elettorale con un partito in cui militi Orban. Cosa che significa che il Partito conservatore, potenziale alleato di una maggioranza di governo europeo, coerente con il rapporto privilegiato istituitosi tra Giorgia Meloni e Ursula von der Layen, finirebbe per essere estromesso dal pacchetto di governo dell’Europa, perdendo la propria influenza e tutto che essa ha sin qui dato (non adeguatamente valorizzato dalla presidenza del consiglio) all’Italia.
Non è quindi da sottovalutare l’importanza dei movimenti dei partiti europei in vista delle elezioni, con una sottolineatura: la crescita numerica di un partito non comporta un meccanico aumento della sua influenza e, soprattutto, del suo potere politico. Non solo: a dar credito ai sondaggi non c’è alcuna possibilità che dalle elezioni esca un Parlamento europeo con una possibile maggioranza alternativa alla vigente «Alleanza Ursula». E quindi, la prospettiva per chi intende essere (o come nel caso di Giorgia Meloni “continuare a essere”) tra coloro che contano nella determinazione delle politiche europee non può essere quella della radicalizzazione delle posizioni del proprio partito che lo renderebbe inviso alle forze politiche che costituiranno la maggioranza.
Capisco l’osservazione: Fratelli d’Italia è diventato il primo partito italiano dopo un decennio di opposizione frontale con il sistema e anche contro i suoi odierni alleati. L’Europa è una cosa diversa, soprattutto perché si vota in modo proporzionale (e sarebbe interessante che una simulazione attendibile ci dicesse quale Parlamento sarebbe risultato da una elezione del 22/23 settembre 2022 condotta con il sistema proporzionale).
Il Partito repubblicano italiano (quello di La Malfa e di Spadolini) non andava mai oltre il 4-5% dei consensi, ma risultava determinante nelle coalizioni di governo in quanto aveva scelto di presidiare una precisa e coerente area politica. Intendo dire che le regole e i «sentiment» spendibili in un sistema maggioritario sono diversi da quelli che governano un sistema proporzionale.
Tutte cose che -immagino- Giorgia Meloni sa bene, come sa essere pragmatica quasi sino al moroteo «mi spezzo e mi piego» (per salvarsi), e che ci sono questioni che non possono andare «oltre» pena la perdita di credito che il Paese le ha concesso. Al primo posto, pongo una questione annosa: l’Italia non è una Nazione «business friendly» e di questo sono testimonianza i continui allontanamenti di grandi aziende che preferiscono insediare le proprie sedi legali altrove e, spesso, anche i loro impianti produttivi.
Siamo tutti concordi nel criticare il giovane John Elkann e l’alleanza del gruppo FCA (Fiat-Chrysler inventato da Sergio Marchionne) con il gruppo Peugeot che ne ha assunto il comando (e lo stesso Sergio Marchionne ha lasciato un documento nel quale considera negativa un’alleanza FCA-Peugeot a causa della eccessiva presenza di modelli tra di loro incompatibili e ritiene che la FCA possa andare avanti per conto suo) e che ha costituito Stellantis (un’impresa che ha acquisito tramite Fca una presenza nel mercato americano che non aveva -e quando l’aveva s’era rivelata fallimentare- mentre nel mercato europeo sta procedendo a una razionalizzazione che, francamente, non può che determinare il drastico, drammatico ridimensionamento -una vera e propria cannibalizzazione nella quale è compresa di tutti i centri studi e progettazione nostrani- dell’automotive italiano). Certo, FCA aveva chiuso il centro direzionale e amministrativo di Torino, trasferendosi in Olanda ben prima di Stellantis.
Allora, nessuno nel governo si era posto la vera domanda che questo trasferimento e gli altri pongono: perché.Perché le imprese se ne vanno e le imprese straniere non vengono o vengono poco. Perché Arcelor Mittal abbandona Taranto il primo impianto siderurgico d’Europa e se ne va a investire in Francia?
Certo, la Giustizia conta e molto: l’assenza di una giustizia civile di rango europeo e di certezza del diritto (basta scorrere la storia giudiziaria dello stabilimento di Taranto per capire di cosa parlo). Ma è altrettanto vero che il nostro sistema giudiziario autoreferenziale e incapace di fornire il «servizio Giustizia» ai cittadini italiani e a chi ne ha bisogno, non è stato ancora radicalmente aggiornato come necessario. E i balletti politico-sindacali con il costante intervento distruttivo delle regioni (pensiamo alla Puglia di Vendola ed Emiliano e alla Xilella e sempre a Taranto) non sono un altro disincentivo?
Insomma, per cambiare passo e trasformare l’Italia che nonostante tutto marcia ed è invidiata (vedi il New York Times e da ultimo la Frankfurt Allemagne Zeitung), occorre che Giorgia Meloni -tirandosi dietro il suo partito- abbandoni linee politiche che vengono dal passato italiano di prima e seconda Repubblica e cominci a innovare laddove innovare è indispensabile.
Solo così riuscirà a conservare il consenso che ha conquistato.
da Italia Oggi