LA COSTITUZIONE NON E’ UNA BANDIERA DI PARTE

La Stampa pubblica un editoriale di Marcello Sorgi  sulla nostra costituzione intitolato ''Carta canta''. Lo riportiamo di seguito:

''Faceva una certa impressione vedere ieri a Roma, in piazza Santi Apostoli, la Costituzione sventolare come bandiera di parte alla manifestazione del Pd. E anche se le intenzioni erano oneste e il presidente Scalfaro, tra i costituenti viventi, ha ricordato che «la Carta serve per unire e non per dividere», è difficile concordare sul fatto che essa debba essere difesa perché rischia d’essere violata. La verità – al di là di polemiche anche recenti – è che a oltre 60 anni dall’entrata in vigore, i principi fondanti della Carta sono così largamente condivisi da averla trasformata in una Bibbia laica dei cittadini.

Non devono trarre in inganno episodi marginali, atteggiamenti di minoranze estreme o veri e propri atti di violenza. Il grosso della popolazione si riconosce nel complesso di valori che ispirano la Costituzione. Rispetto delle libertà civili, pari dignità delle persone, pluralismo politico e culturale, libertà d’espressione e parità delle diverse confessioni religiose, valore del mercato e libertà d’impresa fanno ormai parte di un patrimonio comune, alla base della nostra convivenza. Chissà com’è venuto in testa al premier di definirla «modello sovietico». La Costituzione, come ha ricordato di recente Augusto Barbera, trova ispirazione nei principi liberaldemocratici delle tre grandi rivoluzioni occidentali: inglese (1689), americana (1776), francese (1789). Nata dall’antifascismo e dal compromesso tra i partiti del dopoguerra, rappresenta un punto d’incontro alto tra le diverse culture, cattolica, liberale e socialista. Senza queste solide fondamenta, non avrebbe resistito 60 anni. Né sarebbe riuscita, com’è accaduto, ad allargare la propria sfera d’influenza. Così, contrariamente a quanti denunciano il rischio di una sua abrogazione, la Costituzione, nei primi anni, ha fronteggiato benissimo l’opposizione strisciante – politica, clericale, industriale – all’attuazione del proprio dettato. Basti pensare alla denuncia, fatta anche sulle colonne di questo giornale da Arturo Carlo Jemolo, del diffondersi di «un’intolleranza religiosa» di fronte all’affermarsi delle prime libertà civili negli Anni 60, o alla stagione dei primi durissimi conflitti sindacali, o ai ritardi nell’attuazione del regionalismo e del decentramento verso i poteri locali.

Con lo stesso vigore la Carta è riuscita a superare bene il ‘68 e gli anni dell’assemblearismo contrapposto al parlamentarismo. Né la intaccarono il terrorismo rosso o nero. Il primo, riprendendo le correnti più radicali della sinistra del dopoguerra, la considerava «occasione mancata di una rivoluzione» e «tradimento della Resistenza». Il secondo, all’opposto, la interpretava come un inaccettabile «cedimento ai comunisti». Anche l’avvento della Seconda Repubblica, con l’alternanza al governo di partiti a cui prima era riservato solo il ruolo d’opposizione, può essere considerato una forma di piena attuazione della Carta. Alla quale, non a caso, anche gli eredi del Movimento sociale (che non l’aveva sottoscritta), al momento di trasformarsi in Alleanza nazionale, hanno dato piena adesione, riconoscendo i valori dell’antifascismo, ribaditi da Fini all’atto della sua elezione a presidente della Camera. Se tutto ciò è potuto avvenire, è merito dell’impianto della Carta. La ricerca, cioè, dei punti comuni, operata dai Costituenti, a partire dalla convinzione che in una società democratica nessuno può ritenersi portatore di verità assolute. Un compromesso che ha lasciato sul campo, tuttavia, anche alcuni punti generici, qualche enunciato meritevole di approfondimento, talune inevitabili ambiguità.

Su tre punti, almeno, i Costituenti hanno lasciato un lavoro da completare: il regionalismo, impropriamente, talvolta, definito federalismo, l’assetto bicamerale e il rafforzamento del governo. In nessun Paese al mondo esiste un conflitto così inestricabile tra potere centrale e locale, o una completa identità di funzioni tra due Camere che si paralizzano a vicenda, oltre alla concreta impossibilità di qualsiasi governo a realizzare il proprio programma. Di qui deve ripartire qualsiasi tentativo di riforma. La sensazione è che più che la volontà – ormai largamente presente sia nel centrodestra che nel centrosinistra, e più che i contenuti delle parti da riformare, di cui entrambi gli schieramenti al governo hanno fatto diretta esperienza – a mancare sia il metodo. Proprio quel metodo che 60 anni fa vide trovare un accordo uomini lontani per convinzioni politiche e culturali, spesso avversari: un liberale-liberista come Luigi Einaudi accanto al socialista radicale Lelio Basso, il cattolico solidarista Giorgio La Pira con il vecchio comunista Concetto Marchesi. E che li trovò fermi nel loro impegno anche dopo la rottura dell’unità antifascista e l’esclusione del Pci dal governo nel ‘47, fino alla conclusione dei lavori della Costituente. Certo, tra questi, e i nostri Berlusconi e Veltroni, ne corrono di differenze. E che in questo clima possa riaffermarsi lo spirito costituente, non c’è proprio da aspettarselo. Si può sperare che, toccato il livello più basso, prevalga la volontà di riscatto. Ma l’importante, al momento, è che – sia per difenderla, sia per rinnegarla – la Costituzione non debba più sventolare come una bandiera di parte''.

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