LA CRISI FINANZIARIA E LA CORSA PRESIDENZIALE NEGLI USA

Il Corriere della Sera pubblica un editoriale di Massimo Gaggi sui riflessi della crisi finanziaria sulla campagna presidenziale Usa intitolato ”E la crisi spinge Mcacin”. Lo riportiamo di seguito:

”«E’troppo tardi anche per il panico», spiegava ieri mattina un analista alla riapertura di Wall Street. Ha avuto ragione: nel lunedì più drammatico della storia finanziaria americana, quello che poteva essere il giorno del naufragio, il mercato ha perduto molto (la Borsa ha ceduto oltre il 4%), ma non ha mai rischiato la rotta disordinata. Sepolto in fretta e furia nella notte il cadavere della Lehman Brothers, la gloriosa banca considerata fino a ieri un protagonista «immortale» di Wall Street, l’America ha evitato il meltdown, ma deve rassegnarsi alla perdita del suo scettro finanziario. Delle cinque grandi banche d’affari di Wall Street — i «titani» che si sentivano padroni del mondo—solo due rimangono oggi in piedi e con una loro autonomia: Goldman Sachs eMorgan Stanley.

È la fine di un’era, ma nessuno ha ancora le idee chiare sui futuri assetti del mondo del credito. Hedge fund e società di venture capital hanno resistito alla crisi, ma restano ai margini del cantiere della ricostruzione. Al centro del sistema tornano i giganti bancari, con Citigroup ormai surclassato da JPMorgan-Chase (che ha assorbito Bear Stearns) e da Bank of America che ha attuato il «salvataggio preventivo» di Merrill Lynch. Ma è difficile credere che l’uomo del futuro possa essere Ken Lewis, incoronato ieri nuovo «re di Wall Street». Il 61enne banchiere del «profondo Sud» che, con una serie di acquisizioni, ha trasformato Bank of America in un colosso, è un imprenditore coraggioso, non certo un genio dell’innovazione. La mossa di Lewis — un banchiere politicamente impegnato in campo repubblicano—ha però dato una scossa positiva al mercato e ha consentito al ministro del Tesoro Henry Paulson di tenere duro sul «no» a nuovi salvataggi pubblici anche dopo il fallimento dei negoziati coi possibili acquirenti di Lehman. Paulson rischia molto, ma potrebbe aver fatto una scelta vincente. Sul piano finanziario e, dal punto di vista dei conservatori, anche su quello politico.

Paulson ha costretto il sistema creditizio a non adagiarsi su una linea di occultamento e rinvio dei problemi come quella seguita negli anni ’90 dai banchieri giapponesi. Quella miopia costò al Paese asiatico un decennio di stagnazione. Stavolta la cura è più rude (demolisce banche, cancella migliaia di posti di lavoro, ridimensiona New York e le altre piazze finanziarie), ma può accelerare i tempi della ripresa. Quanto alla corsa per la Casa Bianca, chiudendo (per ora) la partita dei salvataggi fatti coi soldi del contribuente, il ministro di Bush ridà fiato — a 50 giorni dal voto—alla campagna elettorale di John McCain i cui continui richiami al liberismo economico e al mercato rischiavano di apparire velleitari davanti alle nazionalizzazioni «a tappeto » dell’amministrazione repubblicana uscente.

L’economia dovrebbe avvantaggiare il democratico Barack Obama, molto più a suo agio del ticket repubblicano su questi temi. E gli errori di Bush sono una grossa zavorra per McCain. Eppure ieri è stato proprio il candidato repubblicano il più rapido e spregiudicato nell’afferrare il «pallino» del crollo di Lehman: un McCain insolitamente truce ha detto che da presidente «farà pulizia» a Wall Street e ha promesso agli americani che non consentirà più che si ripeta una crisi come quella attuale. Non ha detto come farà e ha totalmente ignorato le colpe di Bush, incapace di far funzionare le authority che dovevano garantire l’ordinato sviluppo dei mercati. Agli elettori inferociti per una crisi che sta riducendo il loro tenore di vita e distrugge posti di lavoro, il senatore dell’Arizona ha dato in pasto i finanzieri di New York, con la loro ricchezza ostentata e la loro arroganza: una ricostruzione volutamente grossolana nella quale chi investe e si occupa di finanza difficilmente potrà riconoscersi, ma che ha molta presa sull’America suburbana e sugli Stati lontani dalle coste dell’Atlantico e del Pacifico, il tradizionale serbatoio di voti dei conservatori.

Tanto più che gli esperti economici repubblicani hanno cominciato a battere i talk show politici delle varie reti televisive sostenendo che i guai di Wall Street, certamente seri, non sono destinati necessariamente a ripercuotersi su «Main Street», cioè sulla vita di tutti i giorni dell’americano medio: lo proverebbe il fatto che mentre le Borse perdono quota e le banche vanno al tappeto, il prezzo della benzina e quelli dei prodotti alimentari scendono rapidamente, mentre anche i tassi d’interesse sembrano destinati a calare ancora. Un altro messaggio che «funziona»: basta non fare troppo caso al fatto che, con le banche in crisi di liquidità, di credito in giro se ne vede ben poco”.

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