L’ETERNA RIGENERAZIONE BERLUSCONIANA

Pubblicato il 14 Aprile 2008 - 22:54 OLTRE 6 MESI FA

La Repubblica pubblica un editoriale di Massimo Giannini intitolato ”Terza Repubblica, stesso Cavaliere” sulla vittoria elettorale di Berlusconi. Lo riportiamo di seguito:

”La Terza Repubblica nasce oggi com’era nata la Seconda, quattordici anni fa. Una vittoria netta e indiscutibile di Silvio Berlusconi. Uno spostamento massiccio e inequivocabile dei consensi verso destra. La storia politica della nazione si compie così, con un moto perfettamente circolare. L’eterna transizione italiana riparte dall’eterna rigenerazione berlusconiana.

Tutto era iniziato con i referendum maggioritari del ’93 e la pirotecnica "discesa in campo" del ’94. Dopo quattro travagliatissime legislature si ritorna al punto di partenza. Il Cavaliere si riprende l’Italia. Sarà vecchio. Sarà spompato. Sarà "unfit". Ma la maggioranza degli italiani ha deciso di riconsegnargli comunque le chiavi del governo, sanando per la terza volta, con la legittimazione di un voto che equivale ancora una volta a un "condono tombale", le sue inadeguatezze, i suoi conflitti di interesse, le sue traversie giudiziarie. È il verdetto del popolo sovrano che, piaccia o no, in democrazia è l’unica cosa che conta. Dal punto di vista "sistemico", queste elezioni rivoluzionano la geografia politica nazionale. Segnano un deciso passo avanti dell’Italia sul terreno della semplificazione coalizionale e gettano le basi per una conseguente modernizzazione istituzionale.

E di questo, al di là del responso dell’urna, va dato pieno merito al Pd e alla svolta che ha impresso al sistema, con la disaggregazione delle vecchie alleanze e le riaggregazione dei nuovi partiti. Il Paese ritorna sui binari di un solido bipolarismo, dopo il deragliamento neo-proporzionalista prodotto due anni fa dal "porcellum". Per la quarta volta in cinque elezioni cambia lo schieramento al governo, e questo è un sintomo che rafforza il meccanismo dell’alternanza. Di più: con un’evoluzione più consona alle moderne democrazie europee, anche la nostra si avvicina a un modello di bipartitismo tendenziale. Dalla Francia alla Germania, dalla Gran Bretagna alla Spagna, due partiti maggiori si ripartiscono un bacino di consensi che oscilla tra il 70 e il 90%. Pdl e Pd insieme, due partiti maggioritari e quasi "presidenziali", raccolgono intorno al 73% dei voti. Il prezzo di questa forte polarizzazione dei consensi è la polverizzazione delle "terze forze" e la desertificazione dei "cespugli". In Parlamento si salva appena l’Udc, ma spariscono la Destra, la Sinistra arcobaleno, i socialisti. Al Senato, di fatto, avranno accesso solo quattro gruppi parlamentari: Pdl, Pd, Lega e Udc. È un esito che può generare un impoverimento della dialettica democratica, e far riaccendere persino una extra-parlamentarizzazione del conflitto sociale. Ma di sicuro aiuta la governabilità politica e l’efficienza legislativa.

Berlusconi ha perso la campagna elettorale, ma ha vinto le elezioni (al contrario di quello che accadde nel 2006). Secondo la felice definizione di Ilvo Diamanti, il Cavaliere non è più "il nuovo che avanza", ma semmai "il vecchio avanzato". Eppure si conferma il più magnetico catalizzatore dei sogni della nazione, e il più carismatico affabulatore dei suoi bisogni. Le critiche e le perplessità che questo giornale ha manifestato nei suoi confronti restano tutte. Il leader di Forza Italia è il campione di un’Italia populista, insofferente alle regole e diffidente nelle istituzioni. È il videocrate che riduce l’etica ad estetica, e che vive la politica come opportunità e non come responsabilità. Ma nonostante tutto questo, bisogna prendere atto che la "pancia" del Paese è con lui. Il muro di Arcore è caduto per sempre: le demonizzazioni e le ghettizzazioni non servono più a niente e a nessuno. E stavolta, a giustificare il suo terzo trionfo solitario, non basta nemmeno il "tesoretto" dei fallimenti del governo Prodi, sul quale ha utilmente speculato in questa campagna elettorale. La forza che questo voto gli conferisce è inequivoca. La "rivoluzione del predellino", uguale e contraria alla scelta del Pd di correre da solo, è stata un salto nel cerchio di fuoco. Ha obbligato la ex Cdl alla sterzata a destra. Ha regalato a Bossi un nuovo patto di sangue. Ha imposto a Fini l’annessione di An, a Casini la cacciata dal tempio. Per il Pdl è stata una scelta potenzialmente arrischiata: ha reciso le già logore radici moderate al suo centro (con l’Udc) e ha aperto un’insidiosa deriva radicale alla sua destra (con Storace-Santanché).

Ma se alla fine il rischio è stato ben ripagato dagli elettori, questo è il segno che nel voto c’è qualcosa di più di una semplice sanzione verso il governo precedente. E se il Pdl stravince al Nord grazie alla Lega, ma vince anche nelle regioni del Centro-Sud dove la Lega non c’è, questo è il segno che un vasto bacino sociale, di borghesia produttiva ma anche di lavoro dipendente, di uomini spaventati del ricco Settentrione ma anche di pubblici salariati del povero Meridione, si raccoglie ormai strutturalmente intorno al Cavaliere, e all’anomalo impasto di "rivoluzione-protezione" che continua a promettergli. Solo così si spiega il perché, dopo quindici anni di anomalie istituzionali e di ordalie politiche intorno alla sua persona, lui resti saldamente in campo. E il suo partito, personale o di plastica quanto si vuole, sia ancora capace di aggregare consensi. E di vincere con un margine amplissimo, a dispetto dei nemici interni sempre più basiti e degli osservatori internazionali sempre più stupiti. Tanto ampio da neutralizzare la possibile incognita di una impropria "golden share" consegnata in mano alla Lega.

È vero che con oltre 20 senatori il Carroccio tiene in ostaggio la coalizione, ma mai come stavolta il Cavaliere ha la possibilità di stringere (se già non l’ha fatto) un "concordato preventivo" con il Senatur. Ha molto da offrirgli, in cambio della sua fedeltà per un’intera legislatura. Dalla presidenza di Palazzo Madama alla poltrona da vicepremier unico, da un altro ministero per le Riforme alla poltrona di governatore della Lombardia, che nell’immaginario delle camice verdi trasformerebbe finalmente la "Madre Padania" da mito virtuale a luogo reale.

Veltroni ha vinto la campagna elettorale, ma ha perso le elezioni. Il bilancio del Pd ha indubbiamente più di una posta al passivo. Forse il leader ha pagato una rincorsa breve, e troppo tarata sul modulo dell’"one man show". Forse non è riuscito a tracciare un perimetro credibile per la nuova constituency valoriale e sociale del partito, usando nel suo tour nelle 100 province italiane troppi messaggi generali e frullando nel suo programma troppe promesse particolari. "Il viaggio è il messaggio": parafrasando McLuhan, forse anche questo è stato l’errore. Così non è riuscito a drenare consensi al centro (sfilandoli al fronte avverso) e ha finito per cannibalizzare i consensi a sinistra. Ma per il Pd le poste all’attivo valgono forse anche di più. In questo complicato Paese non è mai esistito un partito riformista che può contare su uno zoccolo duro vicino al 35% dei voti. Nella Prima Repubblica solo la Dc (e neanche il Pci) ha potuto contare su un risultato così ampio. Questo è un solido "gancio" sul quale continuare la scalata verso il governo del Paese. Ora si misurerà la capacità dei gruppi dirigenti di stabilizzare il Pd, e di trasformarlo in una realtà strutturale, che resterà e crescerà nel panorama politico nazionale, e non di svilirlo a un episodico espediente elettorale, come sono stati la Gad, la Fed, o persino lo stesso Ulivo.

Non è un esito scontato, dopo la sconfitta di ieri. Conosciamo bene la propensione all’autolesionismo di quel ceto politico. Ma alzi la mano chi, tra i democratici, ha voglia di purghe staliniste o di nostalgie autonomiste, e ha la solita tentazione di mettersi a sparare sul quartier generale. Alzi la mano chi si illude che sarebbe stato o sarebbe tuttora meglio tornare alla divisione Ds-Margherita, due chiodi arrugginiti buoni per impiccarsi, non per riprendere la salita verso la vetta. Certo, nella metà campo della nuova opposizione non si può non registrare con inquietudine il tracollo delle sinistre alternative e l’estinzione definitiva di ben quattro sigle coalizzate. Rifondazione, il Pdci, i Verdi e Mussi pagano i veti continui e le estenuanti mediazioni al ribasso cui hanno obbligato Prodi. Agli occhi degli elettori, evidentemente, proprio loro sono stati la "malattia" di quel governo, mentre Mastella ne è stato solo la "febbre". Ora, con loro, è in gioco non solo il destino di un leader storico come Bertinotti, ma la nozione stessa di sinistra. Ci vorrà una riflessione severa, e una lunga traversata nel deserto, per riaffacciarsi sul mercato politico con un’offerta convincente. Possono accusare finché vogliono il Pd e la sua "vocazione maggioritaria", ma i vari Giordano, Diliberto e Pecoraro Scanio devono prendere atto, risultati alla mano, che l’Arcobaleno non lo era affatto.

Cosa accadrà adesso? Berlusconi ha una maggioranza più che solida. I numeri a sua disposizione autorizzano la previsione di un governo di legislatura. La domanda cruciale è se sarà una anche legislatura costituente, come servirebbe al Paese. Le prime mosse del Cavaliere sembrano concilianti. Parla di riforme condivise, ipotizza la riesumazione della Bicamerale, si dichiara diverso dal premier che vinse nel 2001, dice di volersi consegnare alla storia come statista. Nella sua terza reincarnazione, l’unto del Signore sembra voler impersonare l’idea di un populismo morbido, di un bipolarismo mite. Contiamo sulla sua sincerità. Conviene a lui, se vuole davvero ascendere al soglio del Quirinale. Ma soprattutto conviene all’Italia, se vuole smettere una volta per tutte di essere una Repubblica preterintenzionale”.