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Lo Stato italiano non funziona, i politici fanno scappare i giovani capaci

Lo Stato italiano non funziona, e c’è senza dubbio molto di vero in quanto ha scritto sul Corriere della Sera Sabino Cassese, già Ministro per l’amministrazione, nell’opinione di Salvatore Sfrecola riportata sul suo sito Un Sogno Italiano.

In questo articolo Cassese affronta il tema delle selezioni e delle retribuzioni, le une e le altre inadeguate, di efficienza (poca) e di mancata attrattiva del pubblico impiego, necessaria per migliorarne la qualità.

Il tema è talmente vasto che nel fondo del Professor Cassese c’è di tutto e tutto è vero. A cominciare dalla critica, neppure troppo sfumata, alle recenti decisioni del governo di procedere a cospicue assunzioni ed a rilevanti stabilizzazioni nella scuola e negli enti locali, compreso il consolidamento dei dirigenti “nominati” ex art. 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001, di cui ampiamente ci siamo più volte occupati, un articolo da ultimo definito “famigerato” dal neodirettore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, Roberto Alesse.

Un’infornata dalla quale i partiti della maggioranza probabilmente immaginano di trarre vantaggi in termini di consenso elettorale “nell’illusione – scrive Cassese – che le assunzioni vogliano dire più voti”. Aggiungendo che “ci si può attendere che, nel 2026, si dovranno stabilizzare le persone assunte a tempo dalle amministrazioni e dagli uffici giudiziari per il piano di ripresa”.

Situazioni già viste in passato quando si provvide all’inquadramento in ruolo dei cosiddetti “avventizi”, precari assunti nell’immediato dopoguerra ai quali erano stato riconosciuto l’espletamento di funzioni, naturalmente “superiori”, che avevano scavalcato quanti avevano avuto il “torto” di essere stati assunti con regolare concorso rimanendo così ancorati al ruolo ed alla qualifica indicata nel bando.

Proseguendo nella lettura del fondo del Professor Cassese si individuano anche altre verità in tema di efficienza/inefficienza della Pubblica Amministrazione la quale registra, in misura maggiore che in passato, anche la “rinuncia” da parte di chi, professionalmente dotato, verificato il ruolo assegnatogli e l’ammontare dello stipendio, sa di poter ottenere più adeguate retribuzioni nel privato o all’estero.

In paesi che assicurano anche prospettive di carriera che premiano il merito, quel valore purtroppo in Italia spesso trascurato. Anzi contestato, ritenuto discriminatorio fin dalla scuola dove una sana competizione è certamente stimolante ai fini dell’apprendimento delle materie curriculari. 

Tutto vero. Tuttavia è mia opinione che tra le tante verità assolutamente condivisibili occorre estrapolare la ragione prima, se così si può dire, la mancanza di quell’autorevolezza dello Stato e degli enti che dallo stesso dipendono e che svolgono un servizio alla comunità.

È vero, dirà qualcuno, che l’autorevolezza è data dalla percezione, da parte dei cittadini, del rispetto dei requisiti del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione, che significa efficienza nella gestione dei servizi e rispetto dei diritti e degli interessi dei cittadini.

A questo proposito voglio ricordare quel che raccontò Roberto Lucifredi, noto amministrativista e sottosegretario negli anni ’50 “per la riforma della pubblica amministrazione” intervenendo in un convegno nel quale veniva presentato il disegno di legge che avrebbe istituito i Tribunali amministrativi regionali.

Disse che, in visita in Svezia, gli era stato riferito che solo allora si era deciso di istituire tribunali amministrativi in quanto in quel paese quando un cittadino lamentava una lesione di un proprio diritto da parte dell’amministrazione pubblica questa esaminava immediatamente la doglianza e, se ne riconosceva le ragioni immediatamente provvedeva, dopo aver chiesto scusa.

Successivamente questa disponibilità a riconoscere gli errori era venuta meno per cui il Parlamento aveva deciso di istituire uno specifico giudice amministrativo.

Quel racconto fece sorridere molti dei presenti ai quali era ben nota la difficoltà dell’amministrazione italiana di riconoscere i propri errori, anche in ragione della complessità delle procedure che accompagnano ogni procedimento. Del resto è stato proprio lo stesso Cassese a segnalare come per le più semplici autorizzazioni sia necessario l’intervento di molteplici autorità in funzione della tutela dei vari interessi pubblici coinvolti, con l’effetto di dilatare nel tempo la decisione finale. Così scoraggiando il cittadino e, ancor più, il privato imprenditore specie se straniero.

Inefficienza e perdita di autorevolezza delineano un circuito perverso che va assolutamente interrotto per restituire allo Stato quel prestigio che, ovunque in Europa, nelle nei grandi stati che hanno una solida tradizione amministrativa, dal Regno Unito alla Germania, al Regno di Spagna, induce i migliori delle famiglie a scegliere il servizio pubblico ritenendo un onore servire lo Stato.

Ricordo, anni addietro, in un volume dell’Istituto di Scienza dell’Amministrazione Pubblica (ISAP) un’intervista ad un alto dirigente dell’amministrazione francese, proveniente dall’Ècole nationale d’administration, già alla guida di un importante settore bancario che, richiesto del perché avesse optato per una funzione pubblica dal trattamento economico inferiore aveva risposto: “Deve considerare qui servo la Francia”.

Occorre oggi una riforma profonda dell’amministrazione con il criterio del saggio legislatore un po’ come Dante fa dire a Giustiniano, l’Imperatore che, parlando di sé stesso spiega di essersi dedicato alla codificazione con un metodo da imitare: “D’entro alle leggi trassi il troppo e ‘l vano” (Paradiso, Canto VI, 12). Ed era un Corpo di leggi straordinariamente stringato, essenziale come nella mentalità romana.

Serve un nuovo Giustiniano, che riordini le attribuzioni dello Stato e degli enti pubblici eliminando competenze inutili in modo da concentrare le decisioni sui procedimenti affidati a funzionari professionalmente dotati ed adeguatamente retribuiti. Ma un emulo dell’Imperatore di Bisanzio non si intravede. Il “Codice dei contratti”, uno strumento centrale nelle attività di provvista di beni e servizi delle amministrazioni pubbliche, appena entrato in vigore, è cresciuto rispetto alla precedente versione in articoli e commi, tutti verbosi, con l’aggiunta di tabelle.

 

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