L’ULTIMA ZATTERA DEL PIANO PAULSON

Il Sole 24 Ore pubblica un commento di Marco Onado sulla crisi finanziaria in atto intitolato ”La zattera di Paulson e i salvagenti eutopei”. Lo riportiamo di seguito:

”Mentre tutto sembra crollare, i mercati si aggrappano come naufraghi all’ultima zattera del piano Paulson. La situazione è ormai insostenibile: nell’arco di poco più di una giornata, abbiamo avuto tre nazionalizzazioni in Europa: Fortis, B&B e persino una sconosciuta banca islandese. Inoltre, lo Stato del piccolo Paese nordico ha concesso una garanzia illimitata a depositanti e creditori delle sei banche locali. Come se non bastasse, una banca ipotecaria è stata salvata in Germania e una americana (Wachowia) comprata per evitare guai peggiori.

Il problema delle banche europee in difficoltà non è legato solo alle perdite sui titoli legati al mercato ipotecario americano, ma anche alla crescente rischiosità dei rispettivi mercati nazionali, oltre che all’inasprimento dei costi di raccolta di fondi, dovuti al fatto che lo spread fra il tasso del mercato interbancario e quello dei titoli pubblici, già a livelli storicamente elevati da mesi, è schizzato ulteriormente verso l’alto. Se le banche non si fidano più delle altre banche e se questa situazione non solo dura per mesi, ma si aggrava pure, c’è da meravigliarsi se il sistema finanziario rischia di crollare e trascinare in un abbraccio mortale il sistema produttivo?

Da agosto 2007 fino a qualche settimana fa, le Banche centrali hanno immesso liquidità in quantità straordinarie, ma non è bastato. Hanno poi risolto le crisi una per una (da Bear Stearns a Aig, lasciando fallire solo Lehman), ma non è bastato. A questo punto non possono far altro che immettere direttamente fondi nelle banche, o comprando i titoli che ormai vengono ufficialmente definiti "tossici" (ci voleva tanto per capirlo?) o sottoscrivendo capitale. Dal punto di vista patrimoniale, la differenza non è molta e rimedia al problema fondamentale: il capitale delle banche è inadeguato rispetto ai rischi effettivi. La situazione è stata aggravata dalle perdite già emerse: secondo le ultime stime le perdite sfiorano i 600 miliardi di dollari, mentre i capitali raccolti ammontano a 435 miliardi. Il gap patrimoniale è cioè aumentato di quasi 160 miliardi.
La soluzione di Henry Paulson non era la migliore possibile (la proposta avanzata da Luigi Spaventa fin dalla scorsa primavera di un nuovo piano Brady come nella crisi degli anni 80 era tecnicamente più solida), ma non è questo il motivo dell’insuccesso.

Tesoro e Fed hanno gestito il problema con indecisioni gravissime sul funzionamento concreto e chiedendo un margine di discrezionalità eccessivo per un ministro in scadenza: libero di scegliere le banche da cui comprare (americane o attive in America); libero di scegliere le modalità tecniche dell’acquisto, il prezzo e dunque l’onere per il contribuente. Per di più, è stato presentato ai parlamentari con l’obbligo di accettarlo praticamente a scatola chiusa. Non è stata solo una rivolta dei peones della politica ad affossare questa versione del piano, ma una reazione forse eccessiva ma comprensibile a un piano elaborato male e presentato peggio. A questo punto non ci sono però alternative ed è più che probabile che una riedizione del piano Paulson, con modifiche che lo renderanno più accettabile, ma che difficilmente lo cambieranno nella sostanza, venga approvata nei prossimi giorni. Realisticamente, bisogna ammettere che solo il settore pubblico di ciascun Paese ha la capacità e la disponibilità a immettere soldi nelle banche. I fondi sovrani ci hanno provato ma difficilmente aumenteranno nel breve la loro esposizione.

Sarà sufficiente questa misura a invertire la caduta senza fine? Probabilmente no, perché molto rimane da fare sull’altro lato della catena (quello trascurato da Paulson) cioè i sussidi alle famiglie, non solo per ragioni sociali, ma anche per evitare le insolvenze che deprimono il prezzo delle case, il valore dei mutui e quello dei titoli da essi derivati. Ma con tutta probabilità sarà sufficiente a eliminare il panico e cercare di dipanare con più calma il processo di digestione dell’eccesso di debiti del passato.

Anche per le banche europee, magari nella forma auspicata da Spaventa, occorrerà individuare qualche soluzione, se non altro per evitare asimmetrie di trattamento e svantaggi competitivi. La crisi è arrivata da noi dopo ed è bene fare tesoro dell’esperienza americana: cercare di spegnere i focolai uno ad uno, cioè salvando una banca dopo l’altra non serve più. Inoltre, sono da mettere in conto altri tagli ai tassi d’interesse, con tutte le ipoteche che ciò comporta per la lotta all’inflazione. Ma alla fine un pacchetto di interventi sempre più straordinari dovrà far riemergere le condizioni di robustezza delle economie di America, Asia ed Europa.

Rimarranno sul terreno molte vittime e molti miti del passato. Fra questi, quello della supremazia della finanza e delle regole americane. Davanti a un disastro come quello che abbiamo di fronte non è possibile aderire al lieto fatalismo di chi ci ricorda che le crisi finanziarie sono sempre avvenute e che sono il prezzo da pagare per l’esuberanza della crescita economica e del processo di innovazione che la guida. Non possiamo trattare questa crisi alla stregua della tempesta ormonale di un adolescente. Né possiamo dare per scontato che le nazionalizzazioni totali o parziali che si vanno diffondendo siano la fonte di straordinari guadagni futuri per le casse statali e dunque per le prossime generazioni di cittadini. Certo, non dobbiamo distruggere la nostra fiducia nei mercati, peraltro abbastanza scossa, e dobbiamo resistere a una prevedibile richiesta di maggior statalismo. Per farlo, è necessario prima di tutto riconoscere quanto imperfetto fosse il mercato finanziario e quanto inefficienti fossero le regole in tutti i Paesi, a cominciare dagli Stati Uniti. Ma il tempo per sentire chiara e forte la voce dell’Europa e per vedere una soluzione autonoma e indipendente si fa sempre più breve”.

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