Nel Pd, tutti contro tutti, a tre settimane dalle elezioni

Nel Partito democratico, a ventidue giorni dalle elezioni europee ed amministrative, tutti sono contro tutti e su tutto. Incredibile, ma vero. Sembra che ognuno giochi per se stesso e, dunque, per spegnere la già flebile fiammella del partito nato, dopo travagli indicibili, poco più di un anno e mezzo fa. Non s’era mai visto un fallimento politico così clamoroso per di più perseguito con maniacale freddezza da consapevoli autori di un suicidio collettivo.Ci interrogheremo a lungo sulla fine prematura della segreteria Veltroni, altrettanto faremo sulla resistibile ascesa di Franceschini; e non ci priveremo neppure del piacere (si fa per dire) di arrovellarci sull’amletismo di D’Alema, il più bel fico del bigoncio che, alla prova dei fatti, ha rivelato tutta la sua volontà d’impotenza racimolando, a mala pena, qualche carica qua e là, neppure di alto profilo, per qualcuno dei suoi.

Ma tutto questo lavorìo non credo che ci porterà a comprendere le ragioni di una disfatta che pur era stata messa in preventivo al momento della costituzione del nuovo soggetto politico, ma che nessuno aveva poteva immaginare tanto disastrosa e repentina.

Ed allora non ci resterà che ripiegare su più modeste aspettative chiedendoci se era davvero il caso che due mondi si fondessero soltanto per sopravvivere, oltretutto provocando la liquidazione parlamentare di una non trascurabile (nei numeri assoluti e non nelle percentuali elettorali) forza politica di sinistra, ancorché divisa, e l’ascesa di un neo-populista, dagli indefiniti contorni, come Di Pietro i cui “valori” nessuno è mai riuscito a declinare, tanto meno gli incauti alleati che oggi lo soffrono come un gravoso peso sullo stomaco.

Certo è che non gliene è andata bene neppure una al Pd. Da quando s’è incaponito a presentarsi come portatore della “vocazione maggioritaria”, ha pagato prezzi alla dabbenaggine politica particolarmente esosi. E continua a pagarne come se niente fosse, alla stregua di un fallito che emette assegni a vuoto. Diversamente come si spiegherebbero le infine rotture nel suo ambito tra personaggi di indubbio rilievo? Pistelli, Renzi, Domenici litigano a Firenze; Cacciari s’oppone alla candidatura di Berlinguer nel Nord Est, accusa Franceschini di non avere una linea, si augura un’inversione di rotta; nel Lazio è già scoppiata la guerra di successione a Marrazzo, Bettini s’è incupito e ritirato, Morassut sconfessa i reprobi, Marroni a giorni alterni fa il capogruppo in Campidoglio perché c’è sempre qualcuno che lo sfiducia; in Campania la Babele è totale: dal bassolinismo trionfante alla disfatta prevista in tutte le province nelle quali si voterà (e la monnezza non c’entra nulla); a Torino Chiamparino accusa la classe dirigente di non aver capito nulla sul contrasto all’immigrazione e lamenta che i vertici non abbiano mai riunito gli organismi decisionali.

Si va avanti così un po’ dappertutto, mentre ancora nessuno, a tutt’oggi, sa a quale gruppo si iscriveranno gli eletti (pochi) del Pd al Parlamento europeo. Intanto, una nutrita pattuglia di intellettuali ha abbandonato Franceschini e compagni per dare man forte all’Italia dei valori, nota associazione di accademici.

Che tristezza. Dalla fine dei vecchi partiti non è nato niente che meriti di essere salvato. Verrebbe voglia di gridare: ridateceli. Ma questi non sono miracoli che si verificano…

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