Premierato, analisi della proposta di Giorgia Meloni, pro e contro, farà la fine di Renzi?
Questa volta è stata la ministra per le riforme Elisabetta Alberti Casellati a presentare l’ennesimo disegno di legge costituzionale.
Cosa prevede il ddl approvato dal Consiglio dei Ministri?
1) Elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio.
2) L’abolizione dei cinque senatori a vita scelti dal Quirinale.
3) La norma anti ribaltone, secondo la quale il Presidente del Consiglio può essere sostituito solo da un parlamentare della maggioranza e solo al fine di proseguire nell’attuazione del medesimo programma di Governo; e che l’eventuale cessazione del mandato del sostituto così individuato determina lo scioglimento delle Camere.
4) Fissa in cinque anni la durata dell’incarico del Presidente del Consiglio.
5) Affida alla legge la determinazione di un sistema elettorale delle Camere che, attraverso un premio assegnato su base nazionale, assicuri al partito o alla coalizione di partiti collegati al Presidente del Consiglio il 55 per cento dei seggi parlamentari.
Ovviamente il testo definitivo è ancora lontano, ma non ci vuole molto a capire che siamo davanti all’ennesima sciagurata riforma costituzionale.
Intanto va subito evidenziata una contraddizione che emerge dalle parole pronunciate dalla Meloni.
La Presidente del Consiglio ha infatti affermato che uno degli obiettivi della riforma è di garantire sostanzialmente la stabilità dei governi – e su questo non c’è niente da obiettare – ma poi ha aggiunto che, proprio perché loro sono “un governo stabile e forte”, hanno sentito la responsabilità di porsi anche il problema di cosa accadrà dopo di loro.
Non vorrei essere troppo puntiglioso, ma così la Meloni si dà la zappa sui piedi, perché, se come dice lei, il suo è “un governo stabile e forte”, allora vuol dire che il sistema attuale funziona, che è stato capace di dare al Paese una guida che può ragionare in termini di legislatura, e che probabilmente il nodo dell’instabilità dei governi sta altrove, non nella Costituzione ma nella classe politica.
Ma andiamo oltre queste minuzie speciose.
Allora, l’articolo 59 della Costituzione prevede che il Presidente della Repubblica possa nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. La potenziale riforma Meloni abolirebbe questo articolo, niente più senatori a vita.
Premesso che forse ci sono problemi più urgenti da risolvere, si può serenamente affermare che la presenza dei «cinque» non può che nobilitare un Parlamento diventato ribalta per le terze file; ed è argomentazione irrilevante se in passaggi di instabilità governativa e di rapporti incerti tra maggioranza e minoranza hanno avuto un ruolo decisivo. I nostri politici dovrebbero stendere tappeti rossi per chi ha illustrato la Patria, anzi, a pensarci bene farebbero meglio a raddoppiarli e passare a dieci.
Tanto per farsi un’idea, dal 1949 ad oggi sono stati nominati senatori a vita figure illustri come Trilussa, Luigi Sturzo, Eugenio Montale, Giovanni Agnelli, Norberto Bobbio, Rita Levi Montalcini, Claudio Abbado, Renzo Piano e Liliana Segre. Un po’ di umiltà non guasterebbe.
Poi c’è l’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio.
Su questo punto c’è poco da dire. La Meloni, con il suo governo e le forze politiche della maggioranza, scelgono di rompere l’equilibrio costituzionale tra poteri conferendo al Presidente del Consiglio una legittimazione politica che di fatto lo pone in una posizione di forza rispetto al Presidente della Repubblica. Qualcuno lo definisce “premierato” e sarebbe già qualcosa se lo fosse, invece siamo davanti ad un altra cosa, alla mai doma passione per l’uomo forte alla guida del Paese, la solita visione nostalgica di un centrodestra sempre ad un passo dall’ennesimo disastro annunciato.
E siccome non si fanno mancare niente, in questo ddl hanno inserito anche una norma anti ribaltone.
In sintesi questo punto prevede che il Presidente del Consiglio possa essere sostituito solo da un parlamentare della maggioranza e per una sola volta, dopo di ché si torna ad elezioni. Quindi svuota le prerogative del Quirinale e trasforma il Parlamento in un Parlamentino scialbo, triste e ricattabile, che, oltretutto, con il combinato disposto del premio di maggioranza previsto da questo ddl, ne uscirebbe assai ridimensionato.
Ovviamente anche questa parte di proposta di modifica non risolverebbe il problema per il quale è stata pensata: i trasformismi si annidano nella Storia del Paese, i ribaltoni nelle stanze più buie dei partiti, non nelle norme elaborate dai Padri costituenti. È la solita destra che marcia contro la Costituzione.
Meloni ha definito questa proposta di riforma “la madre di tutte le riforme”. Bene, allora in caso di sconfitta nel probabile referendum costituzionale si dimetterà? Oppure farà spallette e continuerà a governare come se non fosse successo niente? È altamente probabile che non legherà il suo destino all’esito referendario, confermando che la politica di oggi è simile ad un vaso di terracotta.
Non dimentichiamolo mai. Questo è il governo più a destra dalla Seconda Guerra Mondiale. La matrice è quella, collezionano busti di Mussolini, sono sovranisti, fanno il saluto romano ai funerali, il loro rapporto con la Costituzione è talvolta ambiguo, preferiscono i libri dei Generali a quelli di Storia, sono in sintonia con Orbán e Le Pen.
La proposta di riforma costituzionale che hanno presentato affonda le radici proprio in questo solco politico e culturale. Va tenuto sempre presente, perché altrimenti rischiamo di non coglierne l’animo. Il crogiolo ideologico che fa da sfondo, non può non essere rilevante. È da lì che parte ogni idea di revisione, è la spinta identitaria alla quale questa destra non riesce a rinunciare nemmeno quando parla di Costituzione, che, com’è noto, appartiene a tutti.
Lo spirito costituente con il quale andrebbero affrontati questi temi è per sua natura in contrapposizione con una destra che non supera se stessa, un limite drammaticamente pericoloso per una coalizione di governo che vuol modificare la Costituzione.
Il vero tema in tutto questo baccano non è la forma di governo prevista dalla Costituzione. Le ragioni delle crisi che si sono succedute negli anni stanno altrove. Anzi, semmai è stata proprio la Carta a garantire, anche in quei momenti difficili, il rispetto delle regole sulle quali si fonda la Repubblica.
L’unica vera riforma da fare è quella dei partiti, ormai diventati organi obsoleti nella società, incapaci di selezionare e formare una classe dirigente adeguata. Noi italiani abbiamo la memoria cortissima, ma proviamo a fare uno sforzo.
Gennaio 2022, c’è da eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Vi ricordate quei giorni? Alla fine il Parlamento, ormai alla deriva, dopo aver inanellato una brutta figura dopo l’altra, ripiegò disperato verso un Mattarella bis, come era successo anche per la rielezione di Giorgio Napolitano. E questo è solo un esempio preso a caso da una lunga lista di disastri.
Dunque, dopo la disfatta della proposta di riforma costituzionale targata Renzi-Boschi di qualche anno fa, ci apprestiamo ad affrontare un’altra fase di accesi dibattiti. Il Paese ancora una volta si spaccherà e correrà pericolosamente lungo questa nuova frattura.
La Costituzione verrà strattonata da una parte e dall’altra, difesa ed attaccata, Lei, che in questa deriva ha solo la colpa di essere una delle migliori al mondo, figlia della Resistenza e della Liberazione, scritta da grandi uomini politici che avevano una visione. Papé Satàn aleppe!