ROMA – La partita del Quirinale vista dalla parte dei numeri. Ora che l’addio di Giorgio Napolitano è ufficiale, anche se il Capo dello Stato ha lasciato a bocca asciutta i Quirinale watchers privandoli di ogni tipo di indizio circa l’identikit del successore, è utile provare a ragionare sulla partita presidenziale partendo dai numeri.
14 – È la prima cifra con cui fare i conti. Parliamo del 14 gennaio, mercoledì. Ventiquattro ore prima Matteo Renzi chiuderà ufficialmente il semestre europeo sotto la presidenza italiana. Napolitano non ha indicato date ma è noto che considera questo giorno come la casella della sua mission accomplished.
Chiuso il semestre, infatti, si sente moralmente svincolato dagli obblighi istituzionali che ha assunto nell’aprile 2013 quando accettò il secondo incarico presidenziale, un unicum nella storia della Repubblica.
Fonti del Colle assicurano che “le dimissioni arriveranno quasi certamente in quella data, al netto di qualche variazione nell’arco però di 24-48 ore al massimo”.
15 – Sono i giorni previsti tra le dimissioni e la convocazione di Parlamento e Grandi Elettori per eleggere il nuovo presidente. Se le dimissioni arrivassero il 14, la seduta non può essere convocata prima della fine di gennaio. Data entro la quale la road map di Matteo Renzi immagina (30 gennaio) di approvare in seconda lettura al Senato l’Italicum 2.0, il nuovo sistema elettorale garantito dal patto del Nazareno e dall’alleanza con Forza Italia. Un patto largo e condiviso anche da Napolitano nel suo ultimo discorso di fine anno.
Ma poiché fatta una nuova legge elettorale in genere si va a votare, nonostante le smentite di Renzi, i gruppi parlamentari non hanno tutta questa fretta di approvare l’Italicum in seconda lettura (mancherebbe la terza). E chi per un motivo, chi per l’altro, ognuno cerca di allungare i tempi.
Renzi è stato categorico: non vuole incrociare la partita quirinalizia con la legge elettorale per non subire ricatti o finire nella palude dell’assenza di quorum. Meno che mai rinviare a dopo l’elezione del nuovo presidente il voto sulla legge elettorale. Cosa che ad esempio vorrebbe una larga parte di Forza Italia. Ecco dunque che potrebbe essere questo l’unico motivo per cui Napolitano rinvierebbe di qualche giorno l’addio al Colle: evitare il voto sull’Italicum nei quindici giorni di vacatio. Per dare una mano alle riforme e a un premier non scelto e non amato ma alla fine stimato.
1008 – Sono i Grandi Elettori. Così suddivisi: 320 senatori (di cui 5 a vita), 630 deputati, 58 delegati regionali, tre per ogni regione tranne la Valle d’Aosta che ne designa una solo.
58 – È il numero dei delegati regionali. Un gruppo di voti che dovrebbe ingrossare soprattutto gli ellettori Pd visto che solo tre regioni (Veneto, Lombardia e Campania) sono di centrodestra mentre la Calabria, appena vinta dal Pd, balla un po’. Difficile avere certezze su questo pacchetto di voti. Diciamo che il Pd di Renzi considera blindati almeno 46 voti.
672 – È questa la quota dei due terzi degli aventi diritto, ossia i voti necessari per essere eletto presidente nelle prime tre votazioni. È successo solo nel 1985 con Cossiga e nel 1999 con Ciampi. Con Leone nel 1971 le lancette dell’orologio hanno girato a vuoto per 16 giorni e 23 scrutini. Napolitano è stato eletto nel 2006 dopo tre giorni e al quarto scrutinio, quando il quorum si abbassa: gli arrivarono 543 voti. Nell’aprile 2013, un Parlamento bloccato dopo i primi turni gli riconobbe invece 738 voti.
505 – È il quorum necessario dalla quarta votazione. Un traguardo più che accessibile anche solo per la maggioranza di governo se si pensa a quello che è successo da metà settembre al 6 novembre scorso per l’elezione di due giudici della Consulta e dei membri laici del Csm. Sono state, quelle, le prove generali di una allora solo possibile elezione presidenziale anticipata. Bene, in quei due mesi il Parlamento in seduta comune ha affrontato ventuno scrutini e per ben sedici volte, nonostante le truppe sparse di franchi tiratori, è andato oltre i 505 voti (pur in assenza dei Grandi Elettori regionali).
571-599 – Sono i voti su cui può contare la maggioranza di governo tra Camera e Senato. Il numero è sulla carta, in base all’iscrizione ai gruppi, comprende i delegati regionali e sconta una ventina di irriducibili nella minoranza dem.
Al Senato la maggioranza può contare su 174 voti: 109 Pd, 4 Misto, 2 Gal, 7 Scelta Civica, 13 Per le Autonomie, 8 Per l’Italia, 31 Nuovo centrodestra. Alla Camera, sempre sulla carta, la maggioranza segna 397 voti così distribuiti: 298 Pd, 30 Misto, 26 Scelta Civica, 16 Per l’Italia, 27 Ncd.
Se questi numeri fossero rispettati, Renzi avrebbe ragione da vendere quando sparge certezze: “Non ci saranno problemi nell’elezione del presidente della Repubblica”.
80/95 – Sono i parlamentari Pd della cosiddetta minoranza dem per i quali nel segreto dell’urna potrebbe valere il detto (aggiornato): “Dio ti vede ma Renzi no”. Nelle ultime votazioni con fiducia, Jobs act e Stabilità, al Pd sono variamente mancati tra i 25/30 voti al Senato e tra i 55/65 alla Camera. Ecco che la base di voti di partenza su cui Renzi può ragionevolmente contare si aggira intorno ai 470 voti. Motivo per cui il premier-segretario può dire: “Tocca a noi, al Pd, dare le carte nella scelta della rosa dei candidati e nell’ultima parola”.
460 – All’incirca. Secondo la visione un po’ ottimistica del premier, sono i voti su cui conta il Pd da solo tra Camera, Senato e delegati regionali.
130 – Sono i voti nella disponibilità di Silvio Berlusconi tra Camera e Senato e che il Cavaliere mette sul tavolo delle riforme. Tavolo da cui non può prescindere, per motivi politici ma soprattutto aziendali. Abbiamo visto, però, che volendo essere pessimisti, la maggioranza di governo potrebbe non essere autonoma e non raggiungere il quorum di 505 per una manciata di voti.
Ecco che Forza Italia diventa fondamentale per blindare il nuovo presidente al quarto scrutinio. Anche se Fitto dovesse fare il bastian contrario ipotecando 40-50 voti suoi, ne resterebbe un centinaio utile per completare in tempi veloci la partita del Colle. Ma potrebbe anche accadere che i ribelli, a destra e a sinistra, siano molti meno del previsto e che sia possibile raggiungere il quorum (672) nelle prime votazioni: maggioranza e Forza Italia hanno a disposizione circa settecento voti.
163 – I voti del Movimento Cinque stelle quando è entrato in Parlamento. Ventisei eletti sono stati cacciati o si sono dimessi. Una grande crisi. Che potrebbe trovare un primo momento di ripartenza se M5S fosse disponibile a votare insieme con le forze di maggioranza il presidente. È già successo per il Csm. È il “secondo forno” che Renzi lascia acceso – pur con molto scetticismo – nel caso Berlusconi dovesse tirare troppo la corda sulle condizioni dell’alleanza. I voti Cinquestelle, come peso specifico, pesano tanto quanto quelli di Forza Italia.
101 – Ormai è il numero simbolico dei franchi tiratori, coloro che nel segreto dell’urna buttano all’aria i conti fatti a tavolino. 101 furono infatti quanti nell’aprile 2013 fecero saltare l’elezione di Prodi. Un incubo ancora ricorrente nel Pd. Ora però la faccenda è un po’ diversa. Paolo Naccarato, senatore area Gal, uno cresciuto accanto a Cossiga, abilissimo con i numeri e cane da tartufo per intercettare imboscate, non ha dubbi: “Questa non è partita da franchi tiratori”. Walter Verini, deputato renziano, non ha dubbi nel dire che “quanto successo nel 2013 fu colpa anche di inesperienza di tanti colleghi appena arrivati in Parlamento”.
Detto tutto ciò, chi tiene il pallottoliere dei voti – area Denis Verdini nel centrodestra, area Luca Lotti nel centrosinistra – è sicuro nel dire che “il patto del Nazareno sopporta fino a 195 franchi tiratori”. Ma anche la sola maggioranza, contando sui delegati regionali sulla carta quasi tutti renziani, potrebbe reggerne fino a un centinaio. Appassionati di numeri, fissata a 758 la platea di voti figlia del Patto del Nazareno, sarebbero necessari 253 franchi tiratori. E fissata a 599 la platea dei voti dell’area di maggioranza, dovrebbero essere 94 i franchi tiratori. Numeri impensabili. A meno di non ipotizzare cataclismi parlamentari.
25 –È la rosa dei candidati. Uno dei più quotati, il presidente della Bce Mario Draghi, si è gentilmente sfilato da una competizione che non ha mai cercato. “Non voglio fare il politico” ha detto intervistato da un giornale tedesco. Fine dei giochi.
Ci sono ben cinque donne: il ministro della Difesa Roberta Pinotti, la presidente della Camera Laura Boldrini, la radicale Emma Bonino, la vicepresidente della Corte costituzionale Marta Cartabia e Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari Costituzionali al Senato.
C’è il gruppo degli ex segretari di partito, da cui Renzi dovrà partire cercando però il meno divisivo: D’Alema, Fassino, Veltroni e persino Franceschini. E quello dei cattolici esperti: Castagnetti e Casini (lanciato da Ncd e Alfano). In quota giudici della Corte costituzionale e riserve della Repubblica sono ben quotati Sabino Cassese, Sergio Mattarella e Giuliano Amato.
Tra gli ex pm, simbolo della lotta alla corruzione, si fanno strada il presidente del Senato Piero Grasso e il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone. La cultura e la società civile puntano su Riccardo Muti e Renzo Piano.
Lasciamo in fondo i più quotati: il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan che metterebbe d’accordo la sinistra e lascerebbe libero un posto al governo che Renzi potrebbe finalmente riempire con l’amico Bini Smaghi; Romano Prodi, due volte premier ed ex presidente di Commissione Europea nei cui confronti sarebbe caduto anche il veto atavico di Berlusconi. Ma la corsa al Colle è troppo lunga per essere già terminata. Anzi, neppure è cominciata.
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