RICOSTRUIRE IL PD: UNA STRADA LUNGA E DIFFICILE

Il Corriere della Sera pubblica un editoriale di Angelo Panebianco sulle cause della sconfitta elettorale in Sardegna del Pd intitolato ''Il peso delle oligarchie''. Lo riportiamo di seguito:

''E' stata probabilmente saggia la decisione di Walter Veltroni di dimettersi, dopo la sconfitta in Sardegna, dall'incarico di segretario del Partito democratico. I capi-corrente avrebbero certo preferito che egli rimanesse in carica ancora qualche mese (fino al congresso di ottobre) in modo di avere il tempo di preparare la successione. Veltroni li ha presi in contropiede aprendo una crisi al buio. Ciò però appartiene all'ambito delle schermaglie e delle tattiche della politica. Schermaglie e tattiche che non possono nascondere il vero problema che sta dietro, o sotto, le dimissioni di Veltroni: è già fallito il progetto che diede vita al Partito democratico? Può un partito nato da poco e collocato all'opposizione (privo, quindi, di quel grande collante che è dato dall'occupazione del potere) non solo sopravvivere ma anche rafforzarsi in vista delle competizioni elettorali future se non riesce a darsi un'anima che sia riconosciuta come tale dagli elettori?

Il progetto da cui nacque il Partito democratico era, sulla carta almeno, un buon progetto. Si trattava di dar vita a un amalgama (relativamente) nuovo fondendo alcune tradizioni politiche in precedenza importanti ma ormai consumate dalla storia. Una nuova combinazione di vecchi elementi poteva dare luogo, come talvolta accade, a una sintesi originale. Inoltre, quel progetto aveva di valido il fatto di rappresentare una salutare reazione all'eccesso di frammentazione della politica italiana, in particolare nell'area di centrosinistra.

Le premesse erano buone. La realizzazione lo è stata assai meno. Per almeno tre ragioni. In primo luogo, a causa di un vizio d'origine. Le primarie mediante le quali venne investito plebiscitariamente della carica di segretario Walter Veltroni non determinarono un indebolimento del «club oligarchico» (i gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita) che aveva tenuto a battesimo il partito. Anzi, le stesse primarie furono controllate e gestite da quel club oligarchico. Veltroni si trovò così ad essere, contemporaneamente, il leader legittimato dal voto del suo popolo e un segretario-ostaggio dei capi-corrente. In larga misura, anche l'impossibilità di fare scelte chiare e nette in materia di organizzazione del partito (come hanno mostrato le inconcludenti dispute sul partito leggero o pesante, e sul partito centralizzato o federato) è figlia delle difficoltà generate da queste due diverse, e contraddittorie, fonti di legittimazione del leader.

In secondo luogo, ha giocato il fatto che, quale che fosse il progetto iniziale, il Partito democratico è stato concepito da molti dei suoi leader, semplicemente, come un nuovo contenitore entro cui garantire la perpetuazione della propria sopravvivenza politica. Il corollario era che, se le cose fossero andate male, si sarebbe sempre potuto abbandonare la barca alla ricerca di nuovi contenitori. I partiti davvero vitali, evidentemente, non sono questo. Sono gruppi associativi nei quali i leader possono essere sostituiti da leaders nuovi ed emergenti senza che questo ne determini la dissoluzione. Il Partito democratico non può avere alcun futuro se i gruppi dirigenti della antica sinistra italiana, provenienti dal Pci e dalla sinistra democristiana, persevereranno nella ormai ventennale, e maniacale, attività di costruire nuove sigle a getto continuo (il Pds, i Ds, i popolari, la Margherita, il Pd) con il solo scopo di perpetuare se stessi. Il gioco non può continuare all'infinito.

In terzo luogo, ha pesato il fatto che, a differenza del centro-destra dove la potente leadership di Berlusconi ha ricreato una forma di primato della politica, il Partito democratico ha dato largamente l'impressione di essere un partito debole e, quindi, etero-diretto, sempre all'inseguimento di istanze provenienti dall' esterno: i sindacati su scuola e Università, il partito dei giudici sulla giustizia, gli umori dei giornali-fiancheggiatori su quasi tutto. Ne è discesa una linea politica ondivaga, oscillante, più farina dei sacchi altrui che del proprio. L'acutizzazione della divisione fra laici e cattolici mi sembra più una conseguenza che una causa della debolezza del partito.

Adesso ricostruire sarà difficile e richiederà molti anni. Ma è anche indispensabile. La democrazia necessita di un'opposizione solida e forte, che possa credibilmente aspirare a diventare governo. In Italia, solo il Partito democratico può essere quella opposizione. Devono però darsi due condizioni. Occorre che finisca l'epoca dell'etero-direzione, che si affermi nel partito la piena capacità di elaborare una propria linea politica originale, unita alla volontà di imporla, anche a brutto muso se necessario, alle lobbies che lo circondano. E occorre che il Partito democratico si apra a una vera e libera competizione interna. Affinché le forze nuove, cresciute in questi anni nelle zone periferiche del partito, abbiano, quanto meno, una chance di farsi strada fino al vertice, senza essere preventivamente costrette a inginocchiarsi e a baciare l'anello dell'uno o dell'altro esponente del vecchio club oligarchico''.

 

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