ROMA: LA PERVICACE OSTINAZIONE CONTRO L’ABORTO TERAPEUTICO

di Chiara

L’anno scorso al quarto mese di gravidanza inoltrato, mi è stata diagnosticata una trisomia 18 a carico del feto, patologia cromosomica incompatibile con la vita (o con una vita che porsa dirsi tale). Pur con il dolore che tale scelta comporta, io e mio marito abbiamo deciso di ricorrere all’aborto terapeutico, manifestando la nostra determinazione al prestigioso ente ospedaliero che aveva seguito il decorso della gravidanza. Con la serenità che appartiene ai giusti, la mia ginecologa mi ha comunicato che non avrebbe effettuato l’intervento, essendo obiettore di coscienza. Ho semplicemente chiesto di poter effettuare l’intervento in quella clinica, indipendentemente dal personale che l’avrebbe compiuto. Mi è stato chiarito che non era possibile perché l’intera struttura era obiettore di coscienza. Quando ho obiettato che ciò non era possibile perché contrario alla legge, disponendo la famosa (famigerata?) L.194/78, art. 9, che. "gli enti ospedalieri sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’effettuazione degli interventi di interruzione di gravidanza, anche attraverso la mobilità del personale" sono stata accompagnata all’uscita, con fermezza, scortata da compassionevoli suorine, a conforto della mia anima dannata.
A nulla è servito insistere che non mi trovavo in una struttura privata, confessionale, ma in un ente pubblico che, percependo i soldi dallo Stato, non poteva disattendere le leggi di quello stesso Stato. Mi sono rivolta a svariate strutture pubbliche romane, ricevendo altrettanti rifiuti, sino a che ho subito l’intervento nell’apposito reparto di un policlinico, in un sottoscala raggiungibile unicamente da una scala antincendio, nell’assoluta desolazione di muri scrostati, tubi a vista, letti di ferro, dove, insieme ad altre 16 ragazze, in sole 4 ore, siamo sfilate sul lettino ospedaliero come quarti di manzo in una macelleria sudamericana. Ho denunciato l’operato del primo ospedale alla Procura e al Tribunale del Malato, ma tutto tace. Nessun reato ravvisato o ravvisabile e nemmeno un po’ di vergogna. Non ho denunciato il secondo ente, perché non vorrei che qualche zelante paladino, in nome della mia dignità, si affretti a far chiudere uno dei pochi ospedali che, a Roma, effettua aborti legali. P. S. L’ospedale così "pio" è il Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina. Così, magari, mi denunciano per diffamazione e finalmente riusciamo ad incontrarci in un’aula di Tribunale.

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