Schiavi, chi sa quanti dei nostri antenati lo furono, deportati dai romani dagli angoli del mondo. Contadini e filosofi, camerieri e scrivani. C’è chi sospetta che schiavi laureati siano i veri autori dei libri di Giulio Cesare. Nella grande Atene della democrazia, per dieci liberi che dibattevano nella Agorà c’erano 50 schiavi che lavoravano per loro. Il grande Tucidide, uno dei padri della storia, pontificava perché altri morivano per lui nelle miniere d’argento in Bulgaria.
Schiavi oggi sembra impossibile, anche se da qualche parte la schiavitù ancora esiste, ma fino a 150 anni fa era una probabilità costante. Se ti muovevi correvi il rischio che i pirati ti pipmbassero addosso, non nei lontani Caraibi, ma nella Sardegna di casa, come accadde al toscano Filippo Pananti nel 1814, portato schiavo a Algeri e liberato solo grazie ai buoni uffici del console inglese. Leggere il racconto di dà i brividi ancora oggi, sembra un romanzom è storia.
Se stavi a casa arrivavano i predatori e ti portavano schiavo del Sultano, come giannizzero, come eunuco, come concubina. Così l’impero ottomano si è ritrovato nell’albero genealogico della dinastia imperiale ben due concubine rapite in successione: una ucraina (la mitica Hurren-Roxelana), una veneta (Nurbanu già Cecilia Venier) con la nostra Maremma che rivendica il posto di Hurren per la nobile longobardo-toscana Margherita Marsili.
Nella storia della Chiesa c’è un santo, ben più efficace e utile all’umanità di San Francesco, e altrettranto misconosciuto, il francese San Giovanni de Matha, che fece della liberazione dei cridtiani schiavi dei musulmani la sua ragione di vita. I suoi discendenti spirituali, un migliaio, sono attivi ancor oggi in Oriente e in Sud America: nel loro albo d’oro hanno la liberazione di Miguel de Cervantes.
Gli americani hanno fatto le cose in grande anche in questo campo e così milioni di neri africani si sono ritrovati in catene portati sulle navi dei negrieri dai mercanti arabi per finire a coltivare i campi di cotone degli inglesi e dei francesi nel sud degli attuali Usa e nei Caraibi.
Andate a Zanzibar, dove gli schiavisti arabi tenevano le loro basi. Potete ammirare ancor oggi gli antri muscosi in cui quei poveretti venivano tenuti in attesa dell’imbarco.
Alla lista dei luoghi da conservare nella memoria delle vergogne collettive si deve aggiungere Montgomery, in Alabama. Un tempo era capitale della Confederazione secessionista e ora è sede del Legacy Museum, che ripercorre la storia della schiavitù attraverso l’incarcerazione di massa di persone di colore.
Monumento moderno, scrive Anita Chabria sul Los Angeles Times, “in quella che può essere descritta solo come una città triste dove i fantasmi di milioni di esseri umani vittime di tratta sembrano sempre presenti, il museo espone con sorprendente chiarezza una storia dolorosa, ma necessaria da riconoscere”.
E aggiiunge. Dodici milioni di neri rapiti dalle loro case all’estero e venduti alle aste americane.
Nove milioni di neri americani sono stati sottoposti al terrore domestico della violenza dell’era di Jim Crow che ha lasciato la giustizia nelle mani dei vigilantes razzisti. Il museo documenta il linciaggio di una bambina di 3 anni, insieme a sua sorella di 10 anni: solo due delle dozzine di bambini uccisi, spesso sotto gli occhi delle forze dell’ordine.
Quella violenza ha costretto molti a trasferirsi nel Nord e nell’Ovest per evitare omicidi, stupri e percosse. Ma anche in quei presunti paradisi sicuri, inclusa la California, 10 milioni di neri americani hanno scoperto che, proprio come nel Sud, erano segregati in alloggi e scuole di livello inferiore e, in ultima analisi, avevano minori opportunità.
Le banche non concedevano prestiti, la polizia ricorreva a reati come l’attraversamento della strada per arrestare, le scuole non insegnavano. E al di là di quella repressione segreta, non erano ancora immuni alla violenza degli stati schiavisti: la California potrebbe aver linciato almeno 350 persone tra il 1850 e il 1935.
Quella segregazione e questi pregiudizi hanno portato 8 milioni di neri americani a essere sistematicamente sovraincarcerati attraverso leggi e politiche che prendevano di mira le persone di colore e le comunità di colore, trasformando la giustizia vigilante in incarcerazione legale.
Nel sito gemello del Legacy Museum, il National Memorial for Peace and Justice, il peso di quell’oppressione e di quel dolore assume un significato letterale. I contrassegni rettangolari in acciaio, a forma di bara appesa a un arto, fungono da monumenti ai 4.400 neri americani linciati tra il 1877 e il 1950.
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